Si stima che al giorno d’oggi circa 40,3 milioni di persone vivano in una condizione di schiavitù. Considerando che tra il quindicesimo e il diciannovesimo secolo erano circa 13 milioni, le cifre si sono triplicate. L’Organizzazione internazionale del lavoro ha dichiarato che donne e ragazze rappresentano circa il 71% delle vittime della moderna schiavitù. I bambini, invece, il 25%, per un totale di circa dieci milioni. Di quei 40,3 milioni di individui, quasi 25 milioni sono costretti ai lavori forzati, sotto minaccia e contro la propria volontà. Altre 15,4 milioni di persone, invece, sono costrette costrette a matrimoni forzati. Senza dimenticare che altri 4,8 sono sfruttati sessualmente. La maggior parte di loro è vittima di un lavoro che si svolge nel privato. Dalla pulizia delle case alla produzione di vestiti, dalla raccolta di frutta e verdura alla costruzione di strutture dedicate a giochi sportivi.
Cosa vuol dire parlare di schiavitù nel 2020? Secondo l’organizzazione Anti-slavery international, che lotta per l’abolizione della schiavitù, oggi una persona viene considerata in schiavitù per diversi motivi. Se è costretta a lavorare contro la sua volontà, ad esempio, se deve sottostare alle regole di uno sfruttatore, se è trattata o commercializzata come fosse un oggetto. Geograficamente la schiavitù moderna è più diffusa in Africa, seguita dall’Asia. Secondo il Global slavery index la Corea del Nord detiene il record assoluto: 104,6 persone in schiavitù ogni mille. In Europa, invece, al primo posto c’è la Grecia, con 8 schiavi ogni mille. La schiavitù è un grande affare che genera globalmente 150 miliardi di dollari all’anno di profitti. Quasi la metà provenienti dai paesi più sviluppati, compresa l’Europa.
Il 2 dicembre del 1949 l’Assemblea generale dell’ONU approvava la repressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione. A distanza di più di 70 anni, è sempre più importante ricordare la giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù.