Alla produzione mondiale di abbigliamento si devono 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra all’anno; peggio dei voli internazionali e del trasporto marittimo insieme. Lo sostiene la Ellen MacArthur, la decima più grande fondazione privata degli Stati Uniti d’America. Basti pensare che ogni secondo un camion carico di vestiti viene bruciato o portato in discarica.
Di fronte a queste evidenze anche le istituzioni sono scese in campo. L’Europa, ad esempio, ha stabilito che ogni Stato membro dovrà istituire la raccolta differenziata dei rifiuti tessili dal 1° gennaio 2025. L’Italia ne ha anticipato la data al 1° gennaio 2022.
Ad oggi, nella penisola, la raccolta dei rifiuti tessili genera circa 150.000 tonnellate di CO2 all’anno, quasi il 20% in più rispetto al 2014. Inoltre, muove un giro d’affari attorno ai 200 milioni di euro. I cassonetti di raccolta sono vuotati da cooperative, che, dopo un primo controllo portano gli indumenti negli impianti di trattamento per la selezione. Qui prima di tutto si scelgono quelli riusabili (il 70% del totale), poi vengono igienizzati e separati per qualità e tipologie. Questi abiti vengono poi venduti in Italia e all’estero, soprattutto Tunisia ed Est europeo ma anche Ghana e Niger. Quello che non viene riutilizzato viene riciclato per fare stracci e strofinacci usati nelle fabbriche o per produrre nuovo tessuto. Alla fine della selezione resta una parte marginale (inferiore al 5%) che finisce in discarica o viene incenerita.