In Italia la pandemia ha reso sempre più difficile abortire. Diverse associazioni avevano infatti denunciato quanto fosse difficile districarsi tra reparti chiusi, limitati o trasferiti e scarsità di informazioni per ottenere un’interruzione volontaria di gravidanza (ivg). Le stesse limitazioni si sono ripresentate in autunno, con l’aumento dei contagi. Si tratta di una situazione che coinvolge l’Italia intera, e che si somma all’alto tasso di obiettori di coscienza tra i ginecologi. Le difficoltà principali hanno a che fare con la sospensione o la riduzione del servizio in alcuni ospedali, con l’assenza di procedure chiare nel caso di positività delle donne che vogliono abortire e con la mancata attuazione delle nuove linee ministeriali sull’aborto farmacologico. Diverse regioni, infatti, non consentono ancora la somministrazione della RU486 (pillola abortiva) nei consultori. Molte donne, risultate positive al tampone, seppur vicine al termine massimo di novanta giorni entro i quali è consentito abortire, sono state costrette a portare avanti la gravidanza.
Secondo le nuove direttive, la pillola avrebbe il vantaggio di poter essere somministrata in consultorio e in ambulatorio. Si eviterebbe, così, l’affollamento degli ospedali. Le regioni che hanno formalizzato il recepimento delle nuove linee di indirizzo sono però pochissime: la maggioranza le ha ignorate e non si è preoccupata neanche di stabilire il tipo e le modalità di rimborso da parte del servizio sanitario nazionale.