Le emissioni di carbonio legate alla generazione di Bitcoin sono simili a quelle prodotte da nazioni come la Giordania o lo Sri Lanka. È quanto è emerso dalle più recenti stime finalizzate a valutare l’impronta di carbonio della moneta virtuale. Se la crescita del Bitcoin dovesse continuare ai ritmi attuali, da solo, potrebbe portare ad un aumento delle temperature medie globali sopra i 2°C. È nell’elevato consumo energetico richiesto che si nascondono le cause dell’impatto ambientale del Bitcoin. Il mining, il processo attraverso cui nuova moneta virtuale viene immessa in circolazione richiede, infatti, un’elevata potenza di calcolo. L’Università di Cambridge, ad esempio, ha stimato che, quest’anno, la generazione di Bitcoin consumerà più di 120 terawattora di elettricità. Più di quanta non ne consumi l’intera Argentina. I ricercatori hanno anche scoperto che, rispetto a quella di oro e platino, la sua “estrazione” richiederebbe più energia.
Per essere redditizio, il Bitcoin deve essere estratto in aree in cui il prezzo dell’elettricità sia basso. Non a caso, un terzo della produzione globale di Bitcoin avviene nella regione cinese dello Xinjiang. Un vasto territorio autonomo la cui produzione energetica è basata, perlopiù, sul carbone. Qui – come riporta un recente report – i costi della produzione energetica sono estremamente bassi, “appena 0,22 yuan per kilowattora, rispetto a 0,6-0,7 yuan della Cina centrale. Ovvero, poco meno di 0,03 euro contro 0,076-0,09 euro.