Nel 2020 sono stati uccisi 331 attivisti ambientali e per i diritti umani. Per un terzo di questi si è trattato di attivisti indigeni. Il 69% delle vittime, in particolare, lottava per la difesa del diritto alla terra e per la tutela delle risorse naturali. Un consistente numero di persone uccise, inoltre, combatteva per fermare progetti dell’industria estrattiva. È quanto è emerso dal nuovo rapporto di Front Line Defenders. Preoccupano i numeri dell’America Latina. Tre quarti degli assassinii registrati, infatti, si sono verificati proprio in questo continente. Il rapporto rivela inoltre che la Colombia, con 177 omicidi, è il paese con il numero più alto di uccisioni. Al secondo posto, le Filippine con 25 assassinii, seguite da Honduras, Messico, Afghanistan e – di nuovo in America – Brasile e Guatemala.
Nonostante le popolazioni indigene rappresentino solo il 6% della popolazione mondiale, i loro attivisti sono colpiti in modo sproporzionato. Il rapporto ha evidenziato poi il ruolo della pandemia sulla strage di attivisti ambientali, specie quelli indigeni. Si potrebbe pensare che le restrizioni, avendo determinato una riduzione delle manifestazioni di protesta, abbiano portato ad una minor esposizione degli attivisti. “Questi – spiegano invece gli autori del report – hanno dovuto affrontare un aumento degli attacchi, dell’insicurezza economica e dell’impatto della malattia e della morte sulle loro comunità, ma hanno lavorato per colmare i vuoti lasciati dalle risposte insufficienti del governo”.