Sono 7600 i militari italiani che si sono ammalati di cancro a causa dei proiettili all’uranio impoverito utilizzati dalla NATO durante i bombardamenti del 1999 in Jugoslavia e, di questi, 400 sono deceduti. I numeri sono stati riportati dal Centro studi Osservatorio Militare. Un rapporto che ha richiesto quasi 20 anni per essere ultimato, un ritardo per il quale il fondatore del Centro studi, Cosimo Tartaglia, ha accusato il ministero della Difesa di non aver fornito la documentazione necessaria.
L’uranio impoverito è un sottoprodotto del procedimento di arricchimento dell’uranio, utilizzato nella fabbricazione di munizioni e proiettili per la sua capacità di accendersi spontaneamente. Nel momento in cui esplode produce frammenti incandescenti (fino a 3.000°c) che ne aumentano la portata distruttiva e rendono l’area circostante altamente tossica. Inoltre, a contatto con alcuni tipi di superficie, si polverizza fino ad assumere le dimensioni di nanoparticelle fortemente cancerogene che si depositano nell’ambiente circostante. La questione dei malati e dei morti provocati da questi armamenti è al centro dell’attenzione anche in Serbia, dove un avvocato, Srdan Aleksic, sta portando avanti una campagna di denunce contro la Nato per il suo utilizzo.
La guerra del Kosovo avvenne tra il 1998 ed il 1999 ed ebbe ad oggetto lo status del Kosovo, che all’epoca faceva parte della Repubblica Federale di Jugoslavia. Essa fu caratterizzata da conflitti armati tra i separatisti albanesi dell’organizzazione indipendentista UCK e forze serbe appoggiate da gruppi paramilitari. La Nato si schierò con gli indipendentisti e dal 24 marzo al 10 giugno 1999 pesanti bombardamenti – partiti dalle basi aeree italiane – colpirono la Serbia.