Il canale ByoBlu è stato cancellato dalla piattaforma YouTube, in un attimo e senza avviso sono scomparsi circa duemila contenuti caricati in 14 anni di attività da uno dei più longevi progetti di informazione indipendente in Italia. La rimozione definitiva del canale è avvenuta ieri, notificata all’editore Claudio Messora con una mail «all’interno della quale la piattaforma video spiega che all’origine dell’oscuramento ci sarebbe la presenza sul canale di un’intervista a Mohamed Konare». L’intervista in questione era in verità presente sul canale da diverse settimane e al suo interno l’attivista panafricano Konare parlava di neocolonialismo e delle attività di stati occidentali e multinazionali in Africa.
Il canale aveva mezzo milione di iscritti e già da tempo era finito nel mirino della piattaforma. Nei mesi scorsi erano stati rimossi alcuni video, tra i quali due contenenti immagini di manifestazioni di piazza e una edizione del telegiornale prodotto dalla redazione nel quale si ponevano dubbi sull’efficacia del vaccino Pfizer a partire da un editoriale del ricercatore Peter Doshi pubblicato sulla rivista scientifica British Medical Journal. Rimozioni ai quali erano seguiti periodi sanzionatori, con l’oscuramento a tempo del canale. Culminati il 23 febbraio scorso quando la piattaforma aveva comunicato all’editore, Claudio Messora, che il canale era stato demonetizzato, ovvero privato dei quasi 5.000 abbonati che avevano scelto liberamente di donare un contributo mensile a ByoBlu per permettergli di sostenere le trasmissioni.
Questi i fatti, che lasciano aperti dubbi legittimi sulle ambizioni inquisitorie sempre più evidenti da parte dei big della rete, a cominciare da Facebook e Google (proprietaria di YouTube). Queste, reclamando il loro essere società private, rivendicano il diritto a rimuovere a proprio insindacabile giudizio canali, pagine e utenti i cui contenuti non sono graditi. E su questa interpretazione si annoda una questione sempre più all’ordine del giorno sul diritto di informazione. Le due piattaforme controllano ormai grossa parte del traffico internet, almeno in occidente, e su di esse si informano milioni di cittadini. Tuttavia non è previsto che queste debbano uniformarsi alle leggi nazionali ed internazionali che tutelano il diritto di informazione.
La questione, specie dopo che è stato bannato da diversi social l’ex presidente Donald Trump, è all’ordine del giorno negli Usa. Dove alcuni costituzionalisti hanno proposto di estendere alle piattaforme internet la cosiddetta state action doctrine, ossia la norma che prevede che se una compagnia privata occupa un foro pubblico non può procedere alla censura contenutistica del discorso pubblico, in quanto depriverebbe la democrazia dei prerequisiti del suo funzionamento. Una norma in passato applicata vietando alle imprese che possedevano le cosiddette company towns – ossia grandi complessi residenziali collegati alle industrie e gestiti privatamente – di vietare manifestazioni, volantinaggi ed altre forme di comunicazione del dissenso salvaguardate dalla costituzione.
In Europa non esistono norme del genere ed anzi con il codice contro l’hate speech, si è creato un precedente pericoloso. La norma, infatti, se da una parte mirava a responsabilizzare le piattaforme – considerandole responsabili dei “contenuti d’odio” su di esse pubblicati – ha di fatto delegato ad esse il compito di valutare e rimuovere i contenuti, incamminandosi verso un privatizzazione sostanziale della censura.
In questo quadro legislativo carente, codificato quando le idee circolavano solo sui media tradizionali e nelle piazze, le piattaforme si muovono come meglio credono e con sempre più evidenti tentazioni censorie. Un fatto che oggi interessa ByoBlu, ma in realtà riguarda l’informazione e la democrazia nel suo complesso.