Le vendite dei quotidiani in Italia si sono dimezzate in soli sette anni, dalle 3.092.865 copie complessive del 2013 alle 1.569.106 del 2020. Si potrebbe pensare che i lettori siano passati a consultare le versioni digitali dei giornali, ma anche la loro vendita è diminuita. Nonostante la diffusione degli smartphone e l’accresciuto accesso a internet se nel 2014 le repliche digitali dei quotidiani erano vendute in 292.454 copie, nel 2020 queste sono diventate 216.370. Gli italiani leggono sempre meno giornali e si fidano sempre meno dei media: solo il 27% dei cittadini ritiene li una fonte d’informazione affidabile e, in generale, il giornalismo riscuote addirittura una fiducia inferiore a quella riposta nella classe politica.
Di fronte a tale quadro si potrebbe pensare che sia in corso una fuga dei grandi imprenditori italiani dal settore dei media, che evidentemente non paga più dal punto di vista dei bilanci aziendali. Ma è vero il contrario, negli ultimi anni le principali testate italiane hanno vissuto una concentrazione sempre più marcata nelle mani di pochi grandi imprenditori, che nei fatti stanno tramutandosi in una piccola oligarchia che – almeno apparentemente – non si fa troppi problemi di fronte alle perdite economiche del settore.
Il gruppo Gedi, rilevato lo scorso anno da John Elkann, detiene un potere mediatico senza precedenti nella storia repubblicana. L’erede della famiglia Agnelli controlla 17 quotidiani (tra cui La Repubblica e La Stampa), 10 periodici, 3 radio e 3 giornali online. Al suo fianco in questo ristrettissimo gotha dell’informazione troviamo Gaetano Caltagirone, che negli anni ha acquistato la proprietà di cinque quotidiani tra i più importanti del centro-sud Italia (tra cui Il Messaggero e il Mattino) e Antonio Angelucci, re della sanità privata e parlamentare di Forza Italia, proprietario di Libero, Il Riformista, Il Tempo e diversi altri giornali locali. Per completare il panorama dei proprietari dei media italiani bastano poche righe, aggiungendo Urbano Cairo (Corriere della Sera e decine di periodici oltre al canale televisivo La7), Berlusconi (Il Giornale e le reti Mediaset) e Confindustria (Il Sole 24 Ore). Un ristrettissimo gruppo che controlla quasi tutta l’informazione stampata e televisiva nonché buona parte di quella online, visto che i due siti di informazione più letti in Italia sono quelli di Repubblica e Corriere della Sera e tra i primi 10 ben sei sono versioni online di grandi quotidiani.
I protagonisti di questo mercato non sembrano farsi molti problemi di fronte alle perdite economiche, dicevamo. John Elkann ha speso 102 milioni di euro per rilevare un gruppo editoriale (Gedi) che nel 2019 ha chiuso il bilancio con una perdita di 129 milioni e il cui valore in borsa è passato in pochi anni da 1,20 euro a 45 centesimi per azione. I quotidiani di Caltagirone hanno invece subito perdite di 360 milioni di euro negli ultimi dieci anni (44,3 mln solo nel 2020) con un solo bilancio chiuso in attivo dal 2008 a oggi. Eppure si tratta di imprenditori avveduti, capaci di ottenere profitti in ogni altro loro ramo d’azienda. Segno di come il possesso dei media è viene visto non come una semplice attività imprenditoriale, ma come un costo che evidentemente vale la pena mettere a bilancio per parlare a milioni di cittadini (attraverso i giornali e sempre di più attraverso siti e pagine social delle testate) e trasmettere la propria agenda politica.
Chiaro che si tratti di fattori che influenzano pesantemente le linee editoriali e la libertà d’informazione di queste testate. Ad esempio, nei quotidiani del gruppo Gedi non si sono trovati spunti critici sul prestito da 6,3 miliardi che l’azienda del capo, FCA (oggi Stellantis), ha ottenuto nel primo decreto ristori varato dal governo Conte II, così come i quotidiani del “palazzinaro” Caltagirone non sono certo il posto giusto per cercare una informazione corretta sugli effetti della cementificazione sul dissesto idrogeologico nel nostro paese.
Ci sono poi grandi aziende che hanno scelto una strategia differente per controllare l’informazione. È il caso di Eni – la multinazionale italiana degli idrocarburi – che possiede direttamente solo un’agenzia di stampa (seppur tra le più importanti, l’Agi), ma ha optato per poderosi investimenti pubblicitari su tutti i giornali italiani. Eni è inclusa nella lista delle 90 aziende più impattanti sul clima a livello mondiale e gli effetti della sua attività estrattiva nel Delta del Niger sono stati definiti in un rapporto di Amnesty International una «tragedia dei diritti umani». Eppure la stampa italiana concede quotidianamente spazio ai comunicati stampa nei quali l’azienda si autoincensa per il grande impegno nella transizione energetica. Un esempio: il 5 giugno scorso, il Corriere della Sera ha dedicato la propria copertina alla giornata mondiale dell’ambiente. “Il Corriere verde per l’ambiente” recitava il titolo di apertura. Solo in prima pagina erano presenti tre spazi pubblicitari affidati all’Eni e nell’inserto era naturalmente presente una intervento nel quale l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, spiegava l’impegno dell’azienda per l’ambiente.
Sono questi, nel profondo, i sintomi di un sistema dell’informazione malato. Dove il conflitto d’interessi – tema scomparso dalla discussione pubblica come se il declino politico e anagrafico di Silvio Berlusconi lo avesse risolto di colpo – non è mai stato così forte e incisivo.
[di Andrea Legni]