L’ultimo trend offertoci dalle Big Tech è quello del fatalismo digitale, ovvero quello di un abbandono totale e quasi dogmatico al fatto che i consumatori siano costretti a vedere annichiliti i propri diritti e la propria privacy. Il mantra in questione vuole infatti convincere l’opinione pubblica che non sia possibile in alcun modo assicurare agli utenti che i dati da loro forniti vengano effettivamente protetti, cosa che a sua volta dimostrerebbe l’innocenza” di quelle aziende che i dati se li lasciano sfuggire.
Non importa che la posizione possa essere vera – e non lo è -, importa che venga percepita come tale, che sovrascriva il senso comune fino a plasmare un miraggio che torni comodo alle ditte tech. Ovviamente il segreto di una simile strategia è che la manipolazione imposta debba assolutamente rimanere occulta, tuttavia alcuni carteggi interni a Facebook hanno rivelato la malizia che si cela dietro al social network.
L’8 di aprile l’azienda di Mark Zuckerberg ha infatti inoltrato ai suoi addetti alle pubbliche relazioni in Europa, Medio Oriente e Africa dei binari guida sul come stemperare gli scandali inerenti all’ultima fuga di dati, quella che ha visto 533 milioni di dati personali venduti sul dark web.
«STRATEGIA SUL LUNGO PERIODO: Ammesso che l’attenzione della stampa continui a calare, non abbiamo intenzione di tornare a discutere dell’argomento. A più lungo termine, tuttavia, ci aspettiamo ulteriori incidenti di scraping e pensiamo sia importante inquadrare la cosa come un problema comune al settore, nonché normalizzare il concetto che queste attività capitino regolarmente», recitava il comunicato. «Speriamo che questo aiuti a normalizzare l’idea che questa attività sia incessante e a evitare che si venga criticati per non essere stati trasparenti su alcuni casi specifici».
Sfortunatamente per Facebook, una svista ha fatto sì che i server dell’azienda inoltrassero una copia della mail anche alla testata danese DataNews, la quale ha provveduto settimana scorsa a renderne pubblico il contenuto, svelando le vere priorità del social. Difendere i dati utente dalle fughe di dati non è certamente cosa facile, ma l’insidia principale consiste nel fatto che tanto più ci si cura della privacy, tanto più gli utenti devono sottostare a una miriade di piccoli rallentamenti che rendono più ostica la fagocitazione bulimica dei contenuti internettiani. In altre parole: se accedere a un qualsiasi portale web fosse complicato quanto loggarsi al proprio account bancario, quante persone andrebbero a vedersi clip di gatti?
Per le aziende tecnologiche, dunque, è più interessante preservare lo status quo e, piuttosto, massacrare la percezione dei fatti fino a quando il mondo intero non sarà convinto che l’unica opzione sia quella di patire il difetto. Si tratta di una strategia peraltro collaudatissima, basti pensare che all’inizio del Novecento fosse perfettamente normale camminare in mezzo alle strade e che sia stata l’industria dell’auto a creare l’idea che chiunque scenda dai marciapiedi sia uno scriteriato che mette a repentaglio la sicurezza di tutti.
Allora la normalità era stata riscritta per adattarsi agli interessi di chi voleva sostituire le autovetture alle carrozze, oggi rischia di essere manipolata per far felici coloro che hanno investito sul capitalismo della sorveglianza.
[di Walter Ferri]