Un miliardo di euro per immagazzinare l’anidride carbonica nel sottosuolo. Questo l’investimento previsto da Eni per il progetto di cattura e stoccaggio della CO2 a largo delle coste di Ravenna. Il gas verrebbe trasportato con condotte sopra giacimenti esauriti, compresso fino a renderlo liquido e iniettato a circa 4.000 metri di profondità. Nonostante l’azienda abbia marcato l’accento sui benefici ambientali della pratica nonché su quelli occupazionali, il progetto vede la forte opposizione da parte di vari movimenti ambientalisti. Vediamo perché.
Se ancora si fatica a ridurre le emissioni di anidride carbonica, tanto vale che venga stoccata nel sottosuolo. È grossomodo questa la logica dietro la tecnologia Ccs (Carbon Capture and Storage). L’anidride carbonica, prima che venga emessa in atmosfera, verrebbe catturata e immagazzinata in maniera permanente all’interno di formazioni geologiche o in pozzi esauriti di petrolio o gas. Acciaierie, termovalorizzatori e cementifici, potrebbero quindi operare senza rilasciare la tanto temuta CO2. Per quanto riguarda i combustibili fossili, la cattura del dibattuto gas serra potrebbe avvenire attraverso due modalità. Nella pre-combustione, gli idrocarburi vengono privati del carbonio prima di essere bruciati, mentre nella post-combustione l’anidride carbonica viene sequestrata una volta liberata. In entrambi i casi, sfruttando le conoscenze e le tecnologie maturate per l’estrazione delle fonti fossili, segue il trasporto e lo stoccaggio.
Una soluzione quindi apparentemente risolutiva che tuttavia cela rischi difficilmente prevedibili. Pur essendo l’unico strumento di riduzione diretta delle emissioni di cui disponiamo, non si hanno informazioni su possibili conseguenze a lungo termine. Il tema, per questo ed altri motivi, è stato recentemente al centro di accessi dibattiti. Le critiche più consistenti quelle di Friday for Future. «Un enorme spreco di denaro e un pretesto per continuare a estrarre combustibili fossili», queste le accuse avanzate dal noto movimento ambientalista. A rincarare la dose, il chimico Vincenzo Balzani: «un’azione fuori da ogni logica – ha dichiarato a Il Manifesto – tecnicamente non ancora sviluppata, caratterizzata da alti costi e forti pericoli ambientali, soprattutto se lo storage avviene in zone sismiche o con forte subsidenza come la costa di Ravenna».
Non dovrebbe infatti sorprendere che il forte interesse di Eni per la realizzazione di impianti Ccs sia tutt’altro che casuale. L’anidride carbonica, infatti, prima di essere stoccata, può essere iniettata nei pozzi petroliferi per aumentare la resa dell’estrazione di greggio. Ma non solo. Questi processi, in parte, sono anche strettamente correlati alla produzione dell’idrogeno. Quello che ormai si prospetta come il vettore energetico del futuro, per quanto pulito, ha ancora qualche pericoloso legame con il fossile. Specie se parliamo di una delle sue sfumature in particolare. La produzione di “idrogeno blu”, quello ricavato dal gas naturale, comporta la liberazione di anidride carbonica che verrebbe però sequestrata proprio grazie alle tecnologie Ccs. Ed Eni, grazie ai suoi numerosi pozzi esausti, ne sarebbe l’unico potenziale produttore.
Inizialmente sembrava che il piano per lo stoccaggio della CO2 di Eni dovesse essere inserito nel Recovery Plan, quindi finanziato con fondi pubblici. Questo, anche grazie alle proteste degli ambientalisti, non è successo. Tuttavia, considerando che l’idrogeno blu è attualmente il più conveniente in termini economici, quei 3,19 miliardi previsti dal piano del governo italiano per «promuovere la produzione, la distribuzione e gli usi finali dell’idrogeno», hanno buone possibilità di finire comunque, per vie indirette, nelle tasche del colosso petrolifero italiano.
[di Simone Valeri]