Una marcia di quasi 2.000 chilometri per dire basta alla devastazione della terra per fini economici. Questa la protesta pacifica portata avanti in Argentina da migliaia di donne in seno al Movimento delle Donne Indigene per il Buen Vivir. Non è la prima volta che marciano. In questo caso, partite il 14 marzo da un territorio recuperato in Patagonia, la destinazione è stata la capitale Buenos Aires. La causa scatenante la mobilitazione sarebbe stato il susseguirsi di incendi che ha distrutto migliaia di ettari di foresta e di territorio indigeno ancestrale. Tuttavia c’è molto altro. Il governo ha imputato il tutto ai fattori meteorologici e alla noncuranza ambientale, ma le donne indigene non credono a questa versione. Le comunità locali delle province interessate, infatti, lottano da tempo contro diversi progetti idroelettrici e di estrazione mineraria che minacciano costantemente la loro terra. Di conseguenza, che dietro a questi incendi ci siano interessi politici ed economici è un’ipotesi verosimile oltreché molto diffusa tra i gruppi del luogo.
Non a caso, la marcia è partita proprio in occasione della “Giornata internazionale di azione contro le dighe e per i fiumi, l’acqua e la vita”. Ma il messaggio che vuole trasmettere è decisamente di più ampio respiro. Come denunciare gli impatti negativi del modello di sviluppo argentino fondato sullo sfruttamento dei territori. Più in generale le donne e i discendenti indigeni tutti, lottano per fermare il ‘terricidio’: «ovvero – ha spiegato l’attivista Moira Millán – la conseguenza del modello di civilizzazione dominante, che sta mettendo a rischio il futuro sul pianeta e che oggi si manifesta attraverso il cambio climatico e i suoi effetti». Proprio la sua comunità, ad esempio, è messa a rischio da un progetto idroelettrico chiamato La Elena: 6 dighe pronte a inondare oltre 10mila ettari di bosco.
C’è poi la questione del Chineo, altra causa scatenante la marcia. Una tradizione ripugnante portata avanti dalla popolazione ‘bianca’ nell’Argentina del nord nei confronti delle bambine indigene di etnia wichis: uno stupro di gruppo condotto dai più giovani come rito di passaggio. «Lo scopo della pratica – ha dichiarato la portavoce del Movimento Juana Atene – è di marcare la proprietà sui corpi delle vittime. Non ha nulla a che fare con la cultura tipica del mondo indigeno. È arrivata con la colonizzazione e continua ad essere realizzata nelle province settentrionali in totale impunità». Per questo e per la salvaguardia della terra c’è bisogno che le donne in marcia, troppo a lungo ignorate, vengano ascoltate. Chiedono solo questo e lo fanno camminando nella speranza di trasmettere un messaggio universale: caminamos para sanar, camminiamo per curare.
[di Simone Valeri]