Durante il summit tenutosi a Londra, in cui si sono riuniti i ministri delle finanze dei paesi del G7 (Regno Unito e Stati Uniti compresi), si è siglato un accordo storico. Per la prima volta dopo una battaglia di 4 anni, si è imposta una tassa minima globale per i Big Tech. Lo scopo è quello di limitare il fenomeno (dilagante) dell’elusione fiscale da parte dei giganti del settore tecnologico. L’aliquota minima per le grandi imprese è fissata al 15% e colpirà soprattutto le aziende con quartieri generali offshore.
Nella difficile transizione verso un mondo digitale, l’imposizione di questa tassa globale sulle imprese è un momento chiave. È da anni che l’Unione Europea e i singoli governi nazionali cercano di rivendicare contributi dai Big Tech della Silicon Valley, sostenendo che a dover essere tassate sono le transazioni, per quanto digitali e quindi intangibili. La situazione è sempre la stessa: una grande azienda come Google o Facebook sceglie come sua sede ufficiale un paese come l’Irlanda, l’Olanda o il Lussemburgo, dove le tasse sulle corporazioni sono ai minimi europei, e poi vende i suoi prodotti in giro per il continente, senza dover rendere conto a nessuno al di fuori dei governi dei paradisi fiscali stessi.
Adesso, con l’aliquota, si andrà a limitare proprio questa possibilità, perché le multinazionali dovranno pagare le tasse nei paesi in cui operano anziché nei paesi in cui sono situati i loro uffici generali. Tutti i paesi del G7 saranno tenuti ad imporre la tassa, fissata al 15%. Un secondo articolo dell’accordo prevede anche un’ulteriore imposta, del 20%, sulla quota eccedente il 10% dei profitti nei paesi in cui questi sono stati fatti.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare le multinazionali hanno accolto con un favore questo accordo. Alcuni, come Mark Zuckerberg, ne hanno addirittura parlato con entusiasmo. In parte il motivo è che così possono risolvere ostilità e problemi con molti governi, a condizioni che considerano accettabili. Non bisogna però illudersi: un’aliquota del 15% non va certo a mettere i bastoni tra le ruote a delle aziende che fanno miliardi in profitto ogni anno. Oltretutto, come hanno sottolineato le voci più critiche, il piano di tassazione presenta delle lacune che, in fondo, permetterebbero ai Big Tech di pagare molto meno di quanto non si dica sulla carta. Molte multinazionali con pagano tasse sugli utili per il semplice fatto che non ufficialmente non ne fanno, facendo passare tutti i ricavi come investimenti in nuovi rami d’azienda, come nel caso di Amazon.
Per quanto il piano possa avere i suoi limiti, va comunque riconosciuto che è un notevole passo avanti. Ovviamente, si poteva imporre più del 15% – Biden stesso aveva inizialmente proposto un’aliquota al 21%, ma il cambiamento potrebbe essere graduale. Per ora, i firmatari dell’accordo sperano di coinvolgere anche i paesi del G20, che si terrà questo luglio a Venezia.
[di Anita Ishaq]