venerdì 31 Gennaio 2025

Il Referendum tradito, dieci anni dopo l’acqua non sfugge al profitto

Esattamente 10 anni fa, oltre 26 milioni di cittadini italiani sancirono che l’acqua avrebbe dovuto essere un bene pubblico libero dalle logiche del profitto. Il 12 e il 13 giugno 2011 più della metà degli aventi diritto al voto si recò alle urne in occasione del sedicesimo referendum abrogativo della Repubblica. Tra gli altri quesiti, quello sui servizi idrici ottenne oltre il 95% dei consensi. Al cittadino si chiese se fosse favorevole all’abrogazione delle norme che prevedono che all’interno della tariffa dell’acqua sia compresa anche la remunerazione del capitale investito dal gestore. Trascorso un decennio però, nonostante la vittoria schiacciante del ‘sì’, quello che si profila oggi è un quadro fatto di ricorsi, decreti-legge e vuoti normativi. Con il risultato che l’acqua non è ancora un bene comune, il referendum è stato aggirato e la volontà popolare tradita. La riforma, tra le altre cose, prevedeva quindi la cancellazione dell’’adeguata remunerazione del capitale investito’ nell’idrico, fissata al 7%. In altre parole, nessun guadagno per chi investe nel settore ma solo una ‘copertura integrale dei costi’ affrontati. Qualche anno fa, tuttavia, questa anziché essere eliminata era stata semplicemente rinominata sotto la voce ‘oneri finanziari’ . A questo proposito, il promotore del referendum, il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, aveva fatto ricorso al Tar.

Bollette elevate e margini enormi per i gestori

La stessa organizzazione, in prima linea per garantire il diritto ad una risorsa idrica realmente pubblica, ha recentemente analizzato il ‘piano degli investimenti nazionali’ sull’acqua e la struttura delle bollette attualmente pagate dai cittadini. Il tutto, allo scopo di valutare la coerenza della situazione odierna con l’esito referendario. Analizzando i risultati – denuncia il Forum – sono emersi dei ‘meccanismi assolutamente inappropriati’ in tariffa: copiosi addebiti a carico della collettività ed enormi margini di guadagno a beneficio dei gestori. Lo schema tariffario di riferimento è il ‘Metodo tariffario idrico 2020-2023’ , approvato nel 2019 e predisposto dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera). Le tariffe cittadine, però, sono applicate e riscosse dal gestore di un determinato Ambito territoriale. In ogni settore viene infatti delineato uno specifico Piano d’ambito, ovvero l’insieme degli investimenti necessari. In questo senso, il Forum ha raccolto i Piani d’ambito pubblicati da 29 delle 259 gestioni esistenti a livello nazionale. I tecnici dell’organizzazione hanno così confrontato e sommato le diverse componenti dei ‘costi’ (gli investimenti) e dei ‘ricavi’ (gli addebiti in tariffa) dei gestori in un arco temporale che va, all’incirca, dal 2020 al 2049. A fronte di 13,8 miliardi di euro di investimenti netti programmati – è emerso dall’analisi – gli addebiti in tariffa riferiti unicamente agli investimenti sono risultati pari a 16 miliardi. Alla luce di un saldo in positivo di circa 2 miliardi di euro, in definitiva, i ‘ricavi’ dei gestori sono ancora maggiori dei ‘costi’. Aggiungendo poi un valore residuo – pari al valore degli investimenti effettuati di cui il gestore non ha ancora recuperato il costo attraverso gli ammortamenti annuali come previsto dalla legge – ed aggiustando l’analisi mediante l’esclusione di voci poi rivalutate come ‘non corrette’, l’utile netto per i gestori dei 29 ambiti esaminati è risultato pari a 4,6 miliardi di euro. Un valore enorme che, tra l’altro, ha tenuto conto dei soli investimenti. Se si considerassero, infatti, anche i cosiddetti ‘ulteriori oneri finanziari e fiscali’ – o meglio, l’’abrogata remunerazione del capitale investito’ sotto mentite spoglie – si toccherebbe quota 9,5 miliardi. «Non solo già oggi la tariffa pone a carico degli utenti l’intera copertura degli investimenti ma questa garantisce utili abnormi ai gestori», commenta il Forum precisando però che i dati non vanno presi alla lettera, bensì servono unicamente a farsi un’idea del meccanismo.

L’affermazione del “modello multiutility”

«Gli enti locali che nella maggior parte dei casi sono i Comuni in società con i gestori privati – scrive Altreconomia che ha collaborato all’inchiesta – hanno un ruolo non secondario in questo frangente, perché non attivarsi per correggere questo tipo di logica? In una situazione che vede peraltro l’affermazione del ‘modello multiutility’ su vasta scala. Ne è la dimostrazione il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) trasmesso dal governo Draghi alla Commissione europea». Infatti, i soldi del Pnrr, al grido dell’efficientamento e della valorizzazione del sistema idrico, in definitiva verranno assegnati a chi gestisce l’acqua mediante una serie di strutture legate alle multiutility. Come nel caso dell’ambito territoriale ‘2 Lazio Centrale-Roma’ gestito da Acea Ato 2 Spa, controllata dalla holding Acea Spa, quotata in Borsa e di cui Roma Capitale è socio di maggioranza al 51%. Oppure, il caso dell’’Alto Rimini’, in Emilia-Romagna, dove il gestore è la multiutility Hera.

Privatizzazione non significa maggiore efficienza

Di magra consolazione sarebbe se ad un processo di privatizzazione corrispondesse una maggiore efficienza. Ma purtroppo non è così. In Italia, nonostante la crisi climatica e le crescenti preoccupazioni sull’esauribilità della risorsa acqua, le reti idriche, mediamente secondo le ultime analisi, perdono ancora 42 litri ogni 100 immessi. «La maggior parte delle perdite – ha commentato a Radio Popolare Erica Rodari, del Comitato Milanese Acqua Pubblica – si verificano proprio dove la gestione è affidata alle grandi multiutility come Hera e Cea. Nel privato le tariffe sono altissime e non si traducono in nessun serio intervento di manutenzione, perché la logica è puntare al profitto. Dove la gestione dell’acqua è affidata a delle società pseudo pubbliche che, pur essendo S.p.A., sono gestite totalmente dal comune, invece, la perdita delle reti è intorno al 10%, ben al di sotto della media italiana del 42%».

Un meccanismo compromesso che deve cambiare

I più recenti dati diffusi da Utilitalia, comunque, dicono che il 53% della popolazione residente in Italia riceve un servizio erogato da società interamente pubbliche. Con Napoli unica grande città la cui rete idrica è totalmente gestita dalla comunale Abc (Acqua bene comune Napoli). È lecito quindi chiedersi: è possibile che questa percentuale progressivamente aumenti? Difficile, ma non da escludere. Quello evidenziato è infatti un meccanismo compromesso che rientra in una generale tendenza alla privatizzazione, sola rallentata ma mai arrestata dall’esito del referendum. Persa la battaglia, la guerra è però destinata a perdurare nel tempo. Per il 12 giugno, il Forum ha organizzato la manifestazione nazionale “Beni comuni, acqua e nucleare: indietro non si torna”. La mobilitazione scaturisce dal fatto che, da dicembre 2020, l’acqua è stata perfino quotata in Borsa. Ma anche allo scopo di contrastare la ‘riforma’ del settore idrico contenuta nel Recovery Plan, la quale punta ad un ‘sostanziale obbligo alla privatizzazione’, in particolare al Sud. E in generale, per far luce su dieci anni di menzogne e speculazioni che hanno boicottato una delle più chiare espressioni della volontà popolare italiana.

[di Simone Valeri]

 

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