Da un decennio a questa parte, l’estrazione di petrolio e gas nel Golfo del Messico ha interessato almeno 3.000 siti. 760 i casi di acidificazione di pozzi offshore e almeno 250 milioni i litri di rifiuti derivanti dalle operazioni e scaricati in mare. È quanto ha svelato il rapporto Toxic Water redatto dal Centro per la Diversità biologica. Questi scarti tossici, in particolare, derivano dal fracking – il processo di fratturazione idraulica sfruttato per facilitare l’estrazione degli idrocarburi – e dalle operazioni di stimolazione del giacimento mediante impiego di acidificanti. I prodotti chimici quali biocidi, polimeri e solventi, utilizzati in entrambi i casi e rinvenuti nelle acque del Golfo, sono associati a rischi significativi per la salute sia per l’uomo che per la fauna selvatica. Formaldeide, metanolo, naftalene, sono solo alcune delle sostanze cancerogene e mutagene provenienti dalle acque reflue rilasciate al largo delle coste federali di Alabama, Mississippi, Louisiana e Texas.
Dal 2010 ad oggi il governo degli Stati Uniti, solo nel Golfo del Messico, ha approvato quindi migliaia di estrazioni inquinanti, senza alcuna supervisione o revisione ambientale significativa. Anzi, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense consente alle aziende di scaricare nel Golfo quantità illimitate di acque reflue di fracking. Considerando che ogni singola operazione genera oltre 80 mila litri di rifiuti, stiamo parlando di una vera e propria devastazione ecologica e sociale legittimata. Uno studio – cita il documento – ha ad esempio valutato la tossicità di 1.021 sostanze chimiche impiegate nella fratturazione idraulica ed ha evidenziato che per il 76% di queste mancano informazioni sugli effetti sulla salute umana e, per le restanti 240 sostanze, è stata dimostrata una tossicità riproduttiva nel 43% dei campioni, una tossicità per lo sviluppo nel 40% ed entrambe nel 17%. Ma le ripercussioni sulla salute umana, nonché i danni appurati per l’ecosistema e gli organismi acquatici, sono solo quelli più diretti. Queste tecniche estreme di estrazione di petrolio e gas danneggiano anche il turismo e la pesca, che creano circa 2,85 milioni di posti di lavoro: più di 10 volte le occupazioni create dall’industria dei combustibili fossili nel Golfo del Messico.
Non vi è dubbio che queste operazioni, alla luce degli impatti sociali, economici ed ecologici, andrebbero vietate o, come minimo, regolamentate. «Il fracking offshore – ha commentato Miyoko Sakashita, direttore del programma oceani presso il Centro – minaccia le comunità del Golfo e la fauna selvatica molto più di quanto il nostro governo abbia riconosciuto. Un decennio dopo il boom del settore, i suoi impatti sulla salute pubblica non sono ancora stati studiati adeguatamente. Il fallimento nel frenare questa importante fonte di inquinamento è inaccettabile». Infatti, se al settore dell’industria fossile, già di per sé responsabile a pieno titolo della crisi climatica, sommiamo l’inquinamento chimico e la devastazione ambientale collaterali, è evidente come una transizione energetica sia quanto mai impellente.
[di Simone Valeri]