Ho sempre presente un’espressione di Jurij Lotman, grande semiologo e studioso della letteratura russa, quando invitava a tenere aperti i recettori dell’ascolto. Il mondo, scriveva Lotman, è una semiosfera, è pervaso di segnali: le voci degli animali, i segnali dei satelliti, i versi dei poeti. Forse questa gamma di input ci sollecita a considerare le tre grandi fonti dell’informazione: la natura, la scienza, l’arte. Di conseguenza, i settori cruciali sarebbero l’ambiente, la tecnologia, la comunicazione: se vogliamo dirlo alla greca l’òikos, la techné, il logos.
Viviamo una fase, lunga quanto?, di assedio comunicativo, rischiamo di essere travolti da una informazione martellante, univoca che ci fa quasi temere di guardare con i nostri occhi l’orizzonte, cioè di possedere immaginazione, come se questa costituisse una colpa o contenesse una minaccia.
Norbert Wiener, fondatore della cibernetica, in un suo saggio dal titolo inequivocabile, The Human Use of Human Beings (1950; trad.it. Introduzione alla cibernetica, Boringhieri 1966) spiega che un messaggio, per essere efficace, “deve dire qualcosa di sostanzialmente diverso dal patrimonio di informazione già a disposizione della comunità”. In altri termini, le informazioni ripetute, a senso unico sono controproducenti, aumentano l’entropia, diminuiscono l’effetto informativo. Meno che mai le notizie volutamente contraddittorie che producono disorientamento, disgregazione. Occorre creatività, variazione, in campo comunicativo, ci vuole un’armonia musicale, non un identico, ossessivo rumore di fondo.
D’altra parte le tecnologie hanno una grande responsabilità, hanno portato a valutare il comportamento umano soltanto in base alla efficienza e al rendimento, come se tutti fossimo tenuti, in ogni caso, a dare risposte adeguate, senza margini di creatività o di errore.
Col rischio di finire come gli androidi di Phil Dick e di Blade Runner, privi di empatia, incapaci di emozioni, difficilmente in grado di rendersi conto dell’esistenza di un altro: “Fintantoché una creatura provava un po’ di gioia, la condizione di tutte le altre creature comprendeva un frammento di gioia” (Ph. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, trad.it. Fanucci 2000).
Viviamo in una semiosfera immersa nell’interdipendenza, dove però senza esercitare l’ascolto, rischiamo di diventare pure macchine che registrano input senza poter dare risposte, oppure dando semplicemente segnali reattivi, scomposti, aggressivi, come accade nei social quando prevale il modello della predazione solitaria, quello presente nei robot umanoidi di cui scriveva Dick.
Dunque, ecco emergere la necessità di una socialità matura, modulata sia sulle esigenze personali, inter-individuali sia su quelle complessive della folla: “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto… Dovunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo”. Parole profetiche, in apertura del poderoso trattato di Elias Canetti, Masse e potere, uscito nel 1960 (trad.it. Adelphi), dopo un trentennio di lavorazione. “Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati”. Ma è paradossalmente la massa che ci può liberare, secondo Canetti, da questa paura. La festosità degli stadi, i raduni dei giovani in ore serali e notturne non sarebbero dunque infrazioni a prescrizioni. La massa si stringe così fitta, scrive Canetti, perché sente di appartenere ad un unico corpo: “Quanto gli uomini si serrano gli uni agli altri, tanto più sono certi di non avere paura l’uno dell’altro”. Ne deriva una condizione paradossale: la distanza sarebbe necessaria ma l’idea di massa è spontanea, preme per la vita più che per la sopravvivenza.
Questa dimensione di una socialità anonima, collettiva, rumorosa, come dotata di un’unica voce tumultuosa, deve poter convivere con l’altra dimensione, quella dell’ascolto, delle relazioni tra persone: l’urlo con la conversazione, il fracasso con il prestare attenzione, la gazzarra con la riservatezza. È in gioco una esigenza di circolarità: le voci degli animali, cioè gli input dell’ecosistema, i segnali dei satelliti, cioè le rilevazioni tecnologiche, e i versi dei poeti, cioè la fantasia creativa, devono alimentare tutti insieme la circolazione del senso, devono nutrire senza prevaricazioni le anime individuali e la sensibilità collettiva.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Grazie!
Grazie a lei.
Bellissimo, da una direzione limpida e precisa a questo momento storico di “speciazione”. Grazie
Grazie dell’apprezzamento, soprattutto perché mette in luce aspetti che non avevo progettato. In questo modo lei mi ha suggerito una nuova uscita sull:argomento. Ci sto lavorando. Grazie ancora
Bellissimo articolo di grande energia, grazie
Grazie a lei, spero di… ripetermi!
Molto interessante, complimenti!
Attenzione! In ogni grazie si nasconde un incoraggiamento! Grazie a lei