Gaza City è una piccola città. 450.000 anime che abitano un’area sovrappopolata piena di vita e palazzi, in un’area grande meno di un terzo di Bologna. Una piccola città della quale in occidente sentite parlare solo quando l’aviazione israeliana ci bombarda, cosa che purtroppo accade abbastanza spesso. Io invece la abito tutti i giorni, e voglio raccontarvi cosa significa essere palestinesi di Gaza, perché non credo che i vostri media ve lo raccontino molto bene. Vi parlerò degli ultimi bombardamenti che tra il 10 e il 21 maggio hanno causato 250 morti tra cui 66 bambini. Perché credo che neppure questo vi sia stato raccontato bene, non fosse altro perché quando iniziano i bombardamenti i giornalisti fuggono da Gaza. Ma vi racconterò anche cosa significa vivere la vita di ogni giorno a Gaza. In particolare cosa significa – visto che è il mio caso – essere una giovane donna, madre e studentessa, palestinese di Gaza.
Come madre, mi preoccupo e temo per i miei figli, per i loro sogni e il loro futuro minacciato. Auguro loro un futuro inaspettato e di non vivere come me l’ansia psicologica, i problemi e la mancanza di libertà di movimento. Come ragazza, affronto la paura che i miei bisogni non siano soddisfatti a causa della mancanza di lavoro, della difficoltà di muovermi e di poter affrontare le esigenze quotidiane di base.
Come studentessa, sto affrontando i problemi della didattica a distanza dopo la pandemia, in una città dove la corrente manca per lunghe ore e la connessione va e viene.
I ricordi di Gaza
Il mondo che pretende ovunque democrazia ed alza la voce per essa diventa incomprensibilmente cieco, sordo e muto di fronte a quanto avviene in Palestina. Lo abbiamo visto durante tutte le operazioni militari condotte da Israele sul nostro territorio: nel 2008, nel 2012, nel 2014 e di nuovo nel 2021.
L’aggressione israeliana che ha preso di mira la Striscia di Gaza è durata undici giorni, senza che i suoi abitanti abbiano goduto di una sola ora di calma, sia durante il giorno che durante la notte. Non un’ora è passata senza il frastuono delle bombe, delle urla e delle ambulanze. 11 notti prive di sonno, trascorse nell’angoscia. 11 giorni durante i quali la macchina da guerra dell’occupazione ha commesso un crimine dopo l’altro, il più orribile dei quali è stato il massacro di Al Wahda Street, dove sono stati uccisi decine di civili che credevano di essere al sicuro nelle loro case.
Non credo che chi è abituato a vivere nella pace possa immaginare cosa significhi vivere sotto i bombardamenti. L’attesa, la paura, l’angoscia che passa dal momento in cui viene lanciato l’avvertimento al momento – che può essere anche diverse ore dopo – in cui effettivamente il bombardamento avviene. Perché è così che avvengono gli attacchi israeliani: prima lanciano dei missili di avvertimento che segnalano alla popolazione l’obiettivo che intendono colpire. Chi abita vicino, se riesce a non farsi bloccare dal panico – e vi assicuro che e non è semplice – cerca di raccogliere l’essenziale ed allontanarsi il prima possibile verso un riparo di fortuna. Attendendo nell’angoscia che arrivino i veri missili a colpire l’obiettivo e sperando di trovare ancora la propria casa al ritorno. Tra i colpi di avvertimento e il bombardamento vero e proprio possono passare diverse ore. Chi ci bombarda conosce i meccanismi psicologici che si scatenano nell’attesa di un attacco annunciato, e li utilizza.
Un diffuso senso di panico
Cinque interminabili ore sono trascorse dai colpi di avvertimento alla distruzione della grande Torre Jawhara nel mezzo del quartiere Rimal. Il missile di avvertimento alle dieci di sera, ancora due missili di avvertimento due ore dopo, poi seguiti da quattro missili distruttivi che hanno scosso l’intero quartiere per dieci minuti, lasciando l’edificio sventrato seppur ancora in piedi.
Alle prime ore dell’alba dell’ultimo giorno del mese di Ramadan, meno di quattro ore dopo il bombardamento della torre Al-Jawhara, la città è stata svegliata dalle esplosioni senza precedenti del bombardamento della zona di Jawazat, nel pieno centro di Gaza City. Per tutto il giorno – che per noi è un giorno speciale, perché è appunto l’ultimo del mese sacro del Ramadan e andrebbe trascorso preparando l’Eid, ovvero la festa della fine del digiuno – si sono susseguiti bombardamenti senza sosta. Fino al tardo pomeriggio, quando è stata colpita e distrutta la torre Al-Shorouk , quella che ospita media e giornalisti. Come si dice, la prima vittima di ogni guerra è sempre la verità e Israele ha colpito chi poteva raccontarla.
Non sempre in guerra, ma mai in pace
Non mi interessava parlare della morte. Ne vedo troppa. Ma dovete sapere che dietro ognuno di questi attacchi che vi ho raccontato un po’ meccanicamente vi sono decine di vite spezzate, centinaia di feriti. E le vittime spesso sono bambini, colpiti mentre corrono e giocano troppo vicini agli obiettivi dell’esercito israeliano. Essere una madre a Gaza significa conoscere ogni possibile sfumatura dei sentimenti di terrore, ansia, confusione e panico.
Essere una madre a Gaza significa anche conoscere la gioia delle piccole cose. Ad esempio la gioia di un bambino che balla di felicità perché dopo otto ore è tornata la luce o perché, dopo aver vinto la paura, gli permetti di scendere di nuovo in strada a giocare con la palla. Molti dei diritti più semplici, quelli che si chiamano diritti umani inalienabili, a Gaza non sono certi.
A Gaza non siamo sempre in guerra, ma non siamo mai veramente in pace. Non è possibile quando la libertà delle cose più semplici ti è negata, quando tante persone sono state uccise, menomate, o sono rimaste senza casa. Quando, in definitiva, la tua patria vive sotto un’occupazione che dura da tanti anni.
I diritti di base negati: acqua, cibo, salute
A Gaza sono poche le cose che funzionano. Il sistema sanitario pubblico ad esempio è in gravi difficoltà. I governi di Israele e dell’Egitto che bloccano l’arrivo dei materiali, l’Autorità Palestinese in Cisgiordania che ha ridotto le spese sanitarie ed è dilaniata da conflitti interni, ed anche Hamas. Tutti hanno un parte di colpa. Le Nazioni Unite forniscono assistenza operando in 22 strutture sanitarie, ma un certo numero di sono state danneggiate o distrutte nei precedenti conflitti con Israele. I pazienti di Gaza che richiedono cure specialistiche devono recarsi negli ospedali della Cisgiordania o di Gerusalemme Est, ma per farlo devono prima ottenere l’approvazione dell’Autorità Palestinese per le loro domande e poi l’approvazione del governo israeliano per i permessi di uscita. Una burocrazia che costa molte vite. Nel 2019, il tasso di approvazione delle richieste dei pazienti di lasciare la Striscia di Gaza è stato del 65%. Significa che più di una persona su tre è stata lasciata senza cure.
Se vogliamo invece parlare dell’alimentazione, nella Striscia di Gaza funziona così. Più di un milione di persone sono state classificate affette “da moderata o grave insicurezza alimentare“, secondo le Nazioni Unite. Solitamente arrivano aiuti umanitari che permettono a tutti di mangiare quanto serve, i valichi di frontiera sono aperti al passaggio dei convogli per gli aiuti, ma quando ci sono i bombardamenti le consegne sono talvolta interrotte.
Inoltre le restrizioni israeliane all’accesso ai terreni agricoli e alla pesca hanno ridotto la quantità di cibo che i gazawi possono produrre da soli. Ogni giorno i nostri pescatori rischiano di essere colpiti dalla marina militare israeliana se si avvicinano troppo al limite di sei miglia marittime che gli è stato concesso.
La maggior parte della popolazione di Gaza soffre di una carenza d’acqua, quella del rubinetto è salata, inquinata e inadatta a essere bevuta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito un requisito minimo giornaliero di 100 litri d’acqua per persona per coprire le necessità di bere, lavarsi, cucinare e fare il bagno. Il consumo medio a Gaza è di circa 88 litri. I servizi igienici sono un altro problema. Anche se il 78% delle famiglie sono collegate alle reti fognarie pubbliche, gli impianti di trattamento sono sovraccarichi. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, più di 100 milioni di litri di liquami grezzi e parzialmente trattati si riversano ogni giorno nel mare.
Anche a Gaza la vita è bella
Ad ogni modo non vi voglio parlare solo di cose brutte. A Gaza la vita è bella. Forse siamo troppi, nel senso che siamo una delle zone più sovrappopolate del pianeta e lo spazio per ognuno non è tanto. Ma noi gazawi siamo in gran parte giovani: il 65% della popolazione ha meno di 25 anni, e facciamo del nostro meglio per migliorare le cose. A Gaza ci sono tante associazioni nate dal basso che cercano di rendere la città un posto migliore, con l’arte, la fotografia, la musica, l’aiuto verso gli altri. A Gaza ci sono anche molti luoghi ricreativi dove passare il tempo in modo positivo, dei cinema e dei ristoranti niente male. E poi a Gaza c’è anche il mare, e a noi piace andare al mare. Guardandolo si può vedere l’orizzonte e si può provare a ripulire l’anima dai pensieri bui. Ah dimenticavo, il nostro mare è lo stesso di voi italiani: il mare Mediterraneo. Noi sentiamo molto il fatto di essere un popolo del Mediterraneo e ci sentiamo legati a tutti gli altri popoli mediterranei, e voi?
[di Deema Jad]
Grazie Deema per avermi fatto capire che d’ora in poi non mi dovro’ + lamentare, perche’ la mia vita, nonostante questa 3 guerra mondiale, data dal coronavirus, e’ pur sempre una vita vivibile. Un grande rispetto nei tuoi confronti
Grazie Deema per questa testimonianza di incredibili difficoltà ma anche di amore e resistenza per la sua città.
E tutto assolutamente assurdo e quasi tutti noi ignoriamo queste realtà! Grazie a questa informazione politicizzata e servile preoccupata solo di non far vacillare il sistema montato ad arte!
Però noi abbiamo un problema più grande: il coronavirus!
Ogni volta che leggo un articolo su Gaza mi chiedo: ma come è possibile che ancora oggi si permetta tutto questo?