All’alba di mercoledì 7 luglio, un commando di mercenari ha fatto irruzione a casa del Presidente haitiano, Jovenel Moïse, 53 anni, crivellandolo fatalmente di colpi sotto gli occhi della moglie, ferita a sua volta, e del figlio. Si è trattata di una spedizione omicida portata avanti da una rete straniera composta da almeno 28 persone, perlopiù ex soldati colombiani che hanno raggiunto la nazione passando dalla Repubblica Dominicana e muovendosi adoperando delle Nissan Patrol nuove di zecca e prive di targa.
La polizia locale ha ucciso tre sospetti in occasione di uno scontro a fuoco e ha fermato almeno diciassette persone, tutte colombiane se non fosse per la presenza di due statunitensi di origini haitiane, James Solages, 35, e Joseph Vincent, 55. In quello che viene identificato come il plotone di esecuzione figurano ex informatori dell’FBI e della DEA, nonché Manuel Antonio Grosso Guarín, 41, ex militare pluridecorato che è stato più volte coinvolto come operativo dall’Intelligence USA. Gli Stati Uniti hanno immediatamente notificato di aver rescisso ormai da tempo i legami con i presunti killer.
Le autorità in carica, le opposizioni e persino la malavita locale sono concordi nel denunciare l’atto criminale come una manovra politica, tuttavia risulta estremamente insidioso il decifrare quale sia la parte che vuole effettivamente trarre vantaggio da un simile risvolto, se le gang armate, uno dei diplomatici locali o i poteri esteri preoccupati per la direzione che stava prendendo il Governo haitiano.
Negli ultimi mesi, il Presidente era stato infatti accusato dall’opposizione di non aver alcuna intenzione di abbandonare la sua poltrona, accusa che certamente non è stata quietata dal fatto che Moïse, avendo sciolto il Parlamento, stesse governando a colpo di decreti e che vagliasse una riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di rinnovare la sua candidatura anche alle prossime elezioni.
La guida del Paese sarebbe dovuta cadere in seno al Giudice della Corte Suprema, il quale, deceduto a causa del Covid-19, fa scivolare l’onere sul Primo Ministro ad interim Claude Joseph, il quale potrebbe insediarsi solamente una volta ottenuta la benedizione di quello stesso Parlamento che ormai non esiste più. A complicare la situazione è il fatto che Moïse avesse appena nominato un nuovo Primo Ministro, Ariel Henry, e che nel frattempo il claudicante Senato di Haiti abbia votato per promuovere il Senatore Joseph Lambert a Presidente transitorio.
Le potenti gang haitiane stanno inoltre scendendo in campo per denunciare quello che identificano come un colpo di Stato, ventilando la volontà di scomodare l’intera alleanza malavitosa – il G9 – per portare avanti una battaglia armata contro un nemico non meglio definito. Di fatto una “rivoluzione” che permetterà loro di estendere ulteriormente la loro già soverchiante influenza.
Claude Joseph, soggetto all’approvazione delle forze internazionali, si appella all’esercito degli Stati Uniti per ottenere una mano nel “preservare la pace” nel Paese, ma gli USA stanno reagendo alle spassionate richieste guadagnando tempo, così da “valutare” la situazione.
Uno dei motivi di questo temporeggiamento può essere attribuito al fatto che tra i corridoi del potere di Washington stiano girando i lobbisti sponsorizzati da Reginald Boulous, i quali spingono perché gli Stati Uniti appoggino Joseph Lambert e Ariel Henry, rispettivamente nei ruoli di Presidente e Primo Ministro
Politico oppositore di Moïse e imprenditore dal passato torbido, Boulous è ritenuto da molti haitiani il mandante dell’omicidio presidenziale. Certezze popolari macchiate dalla presenza di audaci illazioni, tuttavia l’uomo ha in passato assoldato James Solages per sfruttare le sue competenze militari e possiede per vie traverse una concessionaria Nissan, elementi che certamente sollevano qualche dubbio nei confronti della sua trasparenza.
[di Walter Ferri]