East African Crude Oil Pipeline (Eacop) è il nome dell’ambizioso progetto che vede la costruzione in Africa di quello che diverrebbe l’oleodotto più grande al mondo. Più di mille chilometri – 1445 per l’esattezza – di infrastrutture, le quali pomperanno 216mila barili di greggio al giorno tra Uganda e Tanzania. L’origine è prevista a Hoima, nei pressi del lago Alberto, dove è stato scoperto un giacimento da 1,7 miliardi di barili di greggio. Un sito pullulante di oro nero che la francese TotalEnergies e la cinese China National Offshore Oil Corporation bramano da anni.
Il percorso dell’oleodotto – il cui progetto vede come partner l’Uganda National Oil Company e la Tanzania Petroluem Development Corporation – attraverserà mezzo continente, tra paesaggi incontaminati fatti di laghi e foreste – compreso il parco nazionale di Murchison Falls, la più grande area protetta del paese – per approdare a Tanga, il secondo porto più grande della Tanzania, dove il petrolio verrà caricato sulle navi cargo. Un vero e proprio strazio per l’ambiente e le popolazioni locali, che ha allertato ambientalisti e attivisti. Già da almeno sei mesi una trentina di Ong ugandesi, francesi e congolesi si sono mobilitate per ostacolare il progetto e mettere in guardia l’opinione pubblica, lanciando la campagna #StopEacop.
Eppure, malgrado fauna e flora siano a rischio – il percorso dell’oleodotto toccherà l’habitat di elefanti, bufali, coccodrilli e gorilla – così come le tantissime famiglie africane che, da sempre, lungo quei 1.400 chilometri vivono e lavorano con le loro attività agricole, pare ci sia poca probabilità di rettifica. Il governo della Tanzania, infatti, sta facendo di tutto per convincere che Eacop sia la cosa giusta per i proventi stimati pari a 3,24 miliardi di dollari e i 18mila posti di lavoro che, a quanto dice, verrebbero a crearsi in 25 anni. Ma i dubbi sono tanti e il malcontento non diminuisce, tant’è vero che TotatEnergies ha assicurato una restrizione dell’area del parco Murchison utilizzata per far passare l’oleodotto (dal 10% all’1% della superficie), e un incremento del 50% dei ranger che tutelano la zona protetta. Ma tali rassicurazioni non sono state messe nero su bianco e non fanno ancora parte di un vero e proprio “piano di mitigazione” atto a evitare danni alla biodiversità e alle comunità.
[di Eugenia Greco]