La guardia è stata tranquilla? Non si è mosso un topo! L’inizio dell’Amleto di Shakespeare è contrassegnato dal cambio della guardia tra Francesco e Bernardo e, inizialmente, dalla richiesta della parola d’ordine: “Long live the King!”. In occasione della Cena di Trimalcione, nel Satyricon di Petronio, all’ingresso della casa si trova il sorvegliante della porta che ha vicino a sé, come un aiutante magico, una gazza che saluta gli ospiti. Cuore di De Amicis contiene l’episodio, eroico e sentimentale, della piccola vedetta lombarda, quel ragazzo colpito a morte mentre sull’albero controlla, guardando “dritto e lontano”, l’arrivo dei nemici.
Apparentemente nulla accomuna dei cavalieri danesi, un ex schiavo ereditiere arricchito e un giovane eroico patriota. Apparentemente. Ma non sono i personaggi ad assomigliarsi. C’è in gioco una funzione di controllo, esercitata con la parola d’ordine, con il portinaio e la sua gazza, con lo sguardo acuto e preciso del ragazzino appostato in avanscoperta. È il comando a definire lo spazio, è la magia a stabilire chi può entrare, è l’invasore, un’azione di forza, che mette in pericolo i confini della patria. Potere e confini, territori difesi, spazi accessibili o meno.
C’è una vera e propria religione delle frontiere, nell’antichità da cui discendiamo, a cominciare dalla fondazione della città, con il suo territorio e la sua estensione, fas o nefas, sacra od ostile, propria o altrui, difesa o abbandonata, centro o periferia, dentro e fuori porta. Viene messa in gioco una purificazione nella gestione civile, che nell’antica Roma era appannaggio dei censori: purificazione e censura, un’origine comune.
Anche noi siamo stati abituati a recinti e confini, a spazi di tutti o soltanto di qualcuno; ricordiamo con tenerezza allarmata le casette di The Truman Show, allineate, eguali, ma rigorosamente distinte le une dalle altre, e monitorate. Abbiamo allenato la nostra idea di sicurezza, con le sue differenti accezioni. Di sicurezza è la serratura di casa, contro le intrusioni, di sicurezza è il comando che chiude le porte posteriori delle auto, pensando al rischio dei bambini, le assicurazioni, anche etimologicamente, promettono sicurezza, cioè scommettono sugli eventi, di sicurezza ancora sono le forze pubbliche di polizia. Gli influencer, dal canto loro, per la protezione personale, hanno la guardia del corpo, che si chiama ‘scorta’ quando invece protegge magistrati minacciati dalla mafia. Ma sicuro è anche il fatto che si verificherà certamente, sicuro è anche ciò che è affidabile, che offre garanzie. C’è dunque una sicurezza rispetto agli spazi e un’altra rispetto al potere, una rispetto alle cose e un’altra rispetto alle persone.
Quando percorriamo le nostre strade, nei tempi che stiamo vivendo, siamo di fatto circondati, assediati, i confini si sono capovolti all’interno, hanno invaso le nostre identità, ci sentiamo navi pilotate per una destinazione ignota o comunque difficile da raggiungere. Navi come navigazione: quel dispositivo che in auto, mentre ci orienta per andare dove abbiamo deciso, rivela a un sistema esperto dove siamo, ci geolocalizza quasi fossimo una centrale di energia a rischio, una banca o un patrimonio dell’Unesco. I nostri spostamenti sono oggetto di curiosità, la privacy è soltanto un’ipotesi, dopo anni di intercettazioni e di intrusioni negli ambiti personali (sempre, ovviamente, per esigenze di giustizia). Ognuno di noi, anche se stonato, rischia di suonare il suo sax in un angolo del mondo, come il protagonista, in chiusura di The conversation di Francis Ford Coppola (1974), impotente, ossessionato dalle parole e dai pensieri degli altri.
La pandemia è diventata un inquietante campo di prova. Intervistato nel 1972, il grande Marshall McLuhan citava san Tommaso d’Aquino, secondo il quale il contatto è la prima forma di conoscenza. E siccome il contatto “è costituito da piccolissimi intervalli”, tali intervalli “non devono essere troppo ampi, altrimenti si perde la connessione” e nemmeno troppo stretti “altrimenti si perde il respiro”. Metafora biologica perché, diceva nei suoi studi lo scienziato canadese (cinquant’anni fa!) era in atto una “erosione della identità individuale causata dall’ambiente del software”. Gli effetti di mutazione generati dai media rendevano necessarie “terapie sociali” e “programmi di immunizzazione nei confronti dei media, paragonabili a quelli da attuare in medicina”. Dovremmo dunque pensare che la pandemia, la trans-pandemia e la post-pandemia hanno il principale effetto non sulla vita e sulla salute della gente ma sulla ristrutturazione del potere dei media, con effetti devastanti nel mondo dei consumi, vale a dire della socializzazione e della simbolizzazione. Tra le frontiere produttive minacciate dall’imperialismo mediatico e distributivo la ristorazione, cioè l’indipendenza dell’offerta del cibo, l’imprenditorialità dell’elemento più emblematico di tutti, con i suoi transfert anche religiosi e le sue prescrizioni, con le sue varietà, i suoi tempi e le sue ritualità.
Siamo scesi in strada, siamo personaggi della pittura iperrealista, solitari dietro vetrine, accomunati da traiettorie ma non sappiamo da cosa altro. Abbiamo lasciato a casa i nostri pc con le loro password e i loro reticoli di potenzialità e di prescrizioni e ci siamo avventurati nelle strade con gli smartphones, che delineano una realtà apparentemente illimitata e che hanno potenziato i vecchi telefonini. – Dove sei? Qualcuno ci chiede.
Le case attorno a noi brulicano di sirene antifurto o di sistemi di sorveglianza, nelle strade occhieggiano, prossime o remote, telecamere che monitorano non soltanto luoghi sensibili ma anche semplicemente la gente qualsiasi, i percorsi più vari, i gesti più banali. Potremmo avere l’insana impressione di essere telecomandati, a forza di essere controllati.
Molti sono già i poteri sottratti alla nostra volontà, oltre all’azione dei governi e degli stati, osservava James Hillman: ad esempio, gli istinti, le pulsioni, le emozioni. Tuttavia, benché siamo continuamene osservati, fortunatamente ce ne dimentichiamo. Ma dovremmo e dovremo ricordarcene, e scendere in piazza, riprenderci i luoghi di tutti. “La piazza universale di tutte le professioni del mondo”, titolo dell’opera di un geniale enciclopedista di fine Cinquecento, barocco e visionario, fantasioso e provocatorio, retorico e realista, Tomaso Garzoni da Bagnacavallo, artefice di un ritratto del mondo caleidoscopico e variegato, pieno di attività e iniziative, di ripetizioni e di scoperte, imprevedibile, come la libertà, anzi come le libertà e i poteri, al plurale.
[di Gian Paolo Caprettini]
Buongiorno, grazie di cuore al giornalista per queste bellissime riflessioni.