La multinazionale petrolifera Eni ha sponsorizzato uno studio scientifico sulla micro-sismicità indotta dall’industria fossile in Basilicata. La ricerca ‘ha dimostrato’, non certo a sorpresa, che trivellare e poi reiniettare l’acqua estratta è perfettamente sicuro. Uno studio che in pratica auto-assolve quanto Eni fa da tempo in Basilicata e che è al centro non solo delle proteste dei cittadini, ma anche di studi realmente indipendenti che hanno rilevato presenza di microinquinanti nell’aria ben al di sopra dei limiti di guardia.
Ma come avrebbe influito Eni sulla ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature? Non vi è chiarezza sul fatto che la multinazionale l’abbia direttamente finanziata o meno. Ma la cosa non farebbe poi molta differenza. Di certo nel paragrafo della ricerca dedicato alle “Dichiarazioni etiche” si legge che la multinazionale italiana non solo «ha avviato il progetto di ricerca» ed ha «fornito risorse informatiche e assistenza tecnica», ma addirittura ha incaricato la società Ramboll Italy Srl di «assumere il team di consulenza» nel quale erano presenti ben 10 referenti del progetto per Eni. Osservando i curricula dei membri del team di ricerca, inoltre, emerge chiaramente che la metà esatta dei ricercatori (7 su 14) sono dipendenti di Eni, o almeno lo erano al momento della redazione della ricerca, pubblicata il 28 luglio scorso. Chiaro che, di fronte a questo quadro, parlare di ricerca “indipendente” ha poco senso.
La ricerca in questione si concentra sulla sismicità indotta. Infatti, le attività umane possono innescare perfino fenomeni sismici. Al riguardo, ci sono sempre più evidenze. L’estrazione mineraria, il sequestro di acqua, la stimolazione di campi geotermici e la ricerca di idrocarburi, difatti, possono aumentare lo stress sotterraneo determinando il cedimento di faglie tettoniche. Con il risultato che determinati terremoti potrebbero scatenarsi o amplificarsi proprio a seguito di tali attività. In particolare, nel mirino c’è proprio l’industria fossile. Questa contribuirebbe al fenomeno essenzialmente attraverso due attività. La fratturazione idraulica e la reiniezione. Il principio della prima è semplice. In parole povere, un liquido ad alta pressione viene iniettato nel sottosuolo per favorire la fuoriuscita e la risalita del combustibile. Nella reiniezione, invece, le acque sotterranee, precedentemente estratte insieme agli idrocarburi, vengono reimmesse nella roccia serbatoio di origine con un principio simile al precedente. Già nel 1966, nei pressi di Denver, in Colorado, si ebbe il sospetto che tali pratiche potessero essere responsabili delle attività sismiche della zona. Ipotesi poi presto confermata.
Nel 1970, però, si è scoperto che gestendo la pressione del liquido da iniettare e mantenendo questa al di sopra o al di sotto di una certa soglia, l’innesco del sisma si potrebbe scongiurare. Sulla base di questo principio e attraverso l’implementazione di una metodologia multidisciplinare, la già citata ricerca avrebbe confermato questa soluzione alla sismicità indotta. Una grande conquista, se non fosse che lo studio in questione è stato supportato da chi ha fin troppi interessi nel settore. Quel che è emerso, infatti, è che – alla luce della metodologia adottata – trivellare e reiniettare l’acqua estratta sarebbe un metodo perfettamente sicuro. Ipotesi di fatto già avallata anche dalla normativa italiana in materia che, con il D.Lgs. 152/2006 e s.m.i. art. 104, definisce esplicitamente suddetta pratica come “modalità di gestione sostenibile delle acque risultanti dalle attività di estrazione di idrocarburi”.
Reiniettare acqua nel sottosuolo, in un determinato modo, sarà anche potenzialmente sicuro, ma di certo in Basilicata, comunque, non se la passano bene. «In prossimità del Centro Olio (Cova) della Val d’Agri, impianto di trattamento del petrolio gestito da Eni, i composti organici volatili totali presenti nell’aria raggiungono livelli critici: superano i 250 microgrammi per metro cubo come media giornaliera. I valori, registrati nella stazione posta a 500 metri sottovento rispetto all’impianto, sono paragonabili a quelli di Pechino e Nuova Delhi, tra le città più inquinate del Pianeta». A rivelarlo è stata un’analisi condotta dalle organizzazioni ReCommon e Source International. Ed è proprio in Val d’Agri che Eni avrebbe dimostrato la sicurezza di una delle sue attività. In parallelo però, il gradiente di concentrazione dei composti organici volatili aumenta in prossimità dell’impianto di proprietà del cane a sei zampe. Queste sostanze, legate alle operazioni che avvengono nelle raffinerie, sono classificate come cancerogene o potenzialmente tali per l’uomo dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc). Disagio sensoriale, gravi alterazioni dello stato di salute, cancro, malattie croniche dell’apparato circolatorio e respiratorio, patologie a carico del fegato e del sistema nervoso, sono solo alcuni dei possibili effetti collaterali derivanti dall’esposizione ad un inquinamento di questo genere. A differenza della reiniezione però, per questo non esistono regolamentazioni, né a livello nazionale né internazionale. Reiniezione che, ricordiamolo, è ora pratica ‘sostenibile’ e sicura. Mentre tutto il resto, in fin dei conti, rappresenta ‘solo’ un pericolo per la salute pubblicala e alimenta la crisi climatica.
La ricerca appare dunque un tentativo estremo di prolungare, ancora e ancora, la vita di un settore che non dovrebbe aver più spazio in un futuro proiettato alla sostenibilità. Ciononostante le scelte politiche sembrano abbracciarlo ancora. Come il caso delle ‘trivelle sostenibili‘ fieramente sostenute dal nostro ministro Cingolani. Mentre passano in secondo piano le sempre più frequenti anomalie meteorologiche e gli impatti sulle comunità interessate dalle attività fossili.
[di Simone Valeri]