Era l’8 aprile scorso quando il presidente del Consiglio Mario Draghi definiva in conferenza stampa il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan «un dittatore del quale abbiamo bisogno». Cinque mesi dopo le cose sono evidentemente cambiate. Quantomeno dal modo in cui il sito ufficiale di Palazzo Chigi riporta la notizia della conversazione telefonica intercorsa ieri tra i due leader. La nota della presidenza del Consiglio parla di «fruttuoso e amichevole scambio di vedute» sulla crisi afghana, di «rinnovato invito» fatto dal premier italiano ad Erdogan per partecipare al prossimo vertice del G20 a Roma, finanche di «eccellenti rapporti bilaterali» e delle «opportunità di ulteriore rafforzamento del partenariato italo-turco in tutti i settori». Una svolta completa, o forse solo una dimostrazione di come i binari dei rapporti tra stati si muovano ben al di fuori di certe dinamiche televisive, buone più per il consenso interno che per la realtà della geopolitica.
Nel discorso dell’8 aprile Draghi aveva anche avvisato che con questi “utili dittatori” sarebbe stato «franco nell’esprimere la diversità di vedute, di opinioni, di comportamenti e di visioni della società». Di tale franchezze però nel comunicato non vi è alcuna traccia. E non che la Turchia abbia mutato atteggiamento nella repressione dell’opposizione interna e nella guerra contro i curdi. Appena quattro giorni fa l’esercito di Erdogan ha bombardato con dei droni nientemeno che il campo profughi di Makhmur, nel Kurdistan iracheno, in una operazione contro i civili che lo stesso ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite ha definito una violazione del diritto internazionale. Nient’altro che l’ultimo capitolo di una lunga scia di violazioni dei diritti civili e politici in Turchia, che passa dagli arresti degli studenti che si oppongono al regime, ai tentativi di messa al bando del partito filo-curdo, fino al controllo sui social media e al divieto di manifestare per la comunità Lgtb.
Tra colleghi ci si capisce.
Proprio cosi…