I datori di lavoro non possono sospendere dal servizio e dalla retribuzione gli OSS che rifiutano di farsi somministrare il vaccino anti Covid: è quanto stabilisce una sentenza della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano, con la quale è stata giudicata illegittima la decisione di una cooperativa privata di congelare il rapporto di lavoro di un’operatrice sanitaria sua dipendente non sottopostasi al vaccino. All’interno della sentenza, pubblicata in esclusiva dal sito Database Italia, si legge che la ricorrente si era rifatta al Tribunale dopo «aver ricevuto notifica, il 9/2/2021, di un provvedimento di messa in aspettativa da tale data al 30/4/2021». La sospensione, tuttavia, era stata successivamente prolungata sino al 31/12/2021, termine previsto dal decreto-legge 44/2021 entrato in vigore nel mese di aprile ed avente ad oggetto l’obbligo vaccinale per i sanitari.
La misura datoriale, però, era stata appunto presa prima dell’introduzione dell’obbligo, ed era stata basata sull’articolo 2087 del Codice civile, che impone all’imprenditore l’adozione, nell’esercizio dell’impresa, delle misure che «sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». In tal senso, la Cooperativa aveva sostenuto che vi fosse una «violazione della migliore tutela dei collaboratori, degli ospiti e di tutti gli utenti» determinata dalla omessa inoculazione del vaccino. Ma tali motivazioni non sono bastate ad evitare la sconfitta giudiziaria.
Ciò innanzitutto poiché, secondo il giudice, «la sospensione del lavoratore senza retribuzione rappresenta l’extrema ratio»: il datore ha infatti l’onere (il cosiddetto obbligo di “repêchage”) di «verificare l’esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore, atte a preservare la condizione occupazionale e retributiva, da un lato, e compatibili, dall’altro, con la tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro, in quanto non comportanti il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2». Tale onere probatorio, però, nel caso di specie non era stato assolto dalla Cooperativa.
Inoltre, dato che al momento del provvedimento non vi era l’obbligo vaccinale, per il giudice «non può addursi la determinazione della cooperativa di richiedere la vaccinazione a tutto il personale». E anche se tale obbligo è stato successivamente introdotto con il decreto legge sopracitato (convertito con modificazioni in legge tramite la legge n.76 del 28 maggio 2021), i «profili di illegittimità non risultano in alcun modo elisi». In pratica nonostante l’entrata in vigore di tale legge, che appunto prevede la possibilità di sospendere i soggetti non vaccinati che sono obbligati ad esserlo, la messa in aspettativa da parte del datore di lavoro non è stata comunque ritenuta legittima.
La legge infatti prevede che prima di arrivare alla eventuale sospensione vi debba essere un lungo procedimento, al termine del quale l’ATS (Agenzia di Tutela della Salute) dovrà adottare l’atto di accertamento sulla non sottoposizione al vaccino da parte dell’individuo obbligato. Tale adozione determina la sospensione da mansioni o prestazioni che comportano il rischio di diffusione del contagio, tuttavia la legge impone al datore di lavoro, così come già stabilito anche dal sopracitato obbligo di “repêchage”, di adibire il lavoratore a mansioni che non implicano tale rischio, e solo se ciò non è possibile non sarà dovuta la retribuzione né altro compenso.
Questa procedura però non è stata rispettata dalla cooperativa non solo poiché, come detto, il datore di lavoro non ha cercato di conferire un impiego alternativo alla lavoratrice, ma anche perché, tra le altre cose, non risulta esservi «l’atto di accertamento che determina la sospensione». Ciò significa che il datore di lavoro privato, al contrario di quanto previsto dalla legge, ha sospeso in prima persona la dipendente non vaccinata ed anche per questo, quindi, il giudice ha dichiarato illegittimo il provvedimento di collocamento in aspettativa non retribuita ed ha condannato la Cooperativa «al pagamento, in favore della ricorrente, delle retribuzioni maturate dalla data di sospensione alla data di effettiva riammissione in servizio o di legittima sospensione della prestazione lavorativa, con interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo».
Detto questo, ciò che conferisce alla sentenza una notevole importanza è il fatto che con essa sia stato ribaltato l’andamento giurisprudenziale finora affermatosi: nei mesi scorsi infatti i giudici di alcuni Tribunali italiani, come quello di Modena, si erano schierati a favore delle sospensioni dal servizio e dallo stipendio attuate dai datori di lavoro e basate, tra l’altro, sull’articolo 2087 del Codice civile. Lo stesso articolo che, ora, è stato giudicato non idoneo a giustificare l’interruzione del rapporto lavorativo.
[di Raffaele De Luca]
Meglio di niente, ma faccio notare – senza ancora aver letto il testo della sentenza, ma mi fido del vostro riassunto – che l’altra faccia della medaglia è la seguente: se fai tutto secondo le regole (rispetti la procedura attualmente vigente, compresa la verifica di adibire la persona a diverse mansioni, e rispetti la competenza nell’erogazione della sospensione), questa sarà inimpugnabile.
In altre parole, non c’è alcuna presa di posizione sull’illegittimità sostanziale della norma.
r.b.
si, è esattamente così. Non è una sentenza che disconosce nel merito la norma, ma solo mette dei paletti procedurali.