Una trattativa tra gli uomini dello Stato e i mafiosi di Cosa Nostra ci fu, ma ciò non costituisce reato: è questa la sintesi più cruda della sentenza pronunciata ieri nell’aula bunker del carcere Pagliarelli dalla Corte d’Assise di Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, che va a chiudere il secondo grado di giudizio del processo sulla trattativa Stato-mafia. I contenuti del dispositivo riformano quasi integralmente il verdetto di primo grado dell’Aprile 2018.
Gli alti ufficiali del Ros dei Carabinieri che in primo grado avevano subìto pesanti condanne per il reato di “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, ovvero Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato”. Insieme a Marcello Dell’Utri, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa nel 2014 ma assolto in questo processo “per non aver commesso il fatto” (dopo una condanna a 12 anni in primo grado), erano stati imputati poiché ritenuti responsabili di avere veicolato la minaccia di Cosa Nostra contro le istituzioni italiane nel periodo compreso tra il ’92 e il ’93 (i Carabinieri) e il ’94 (Dell’Utri).
Il contesto in cui ebbe origine la trattativa Stato-mafia riguarda il delicato periodo immediatamente successivo alla pronuncia della sentenza di Cassazione del Maxiprocesso che, nel gennaio 1992, sferrò un colpo senza precedenti a Cosa Nostra, avvalorando l’impianto accusatorio del pool di Falcone e Borsellino. In quel frangente, come hanno testimoniato diversi collaboratori di giustizia, la Cupola deliberò l’uccisione di una serie di prestigiosi uomini politici che avevano garantito ai mafiosi di insabbiare il Maxiprocesso, non riuscendo però a concretizzare la loro promessa. Per questo motivo, nel marzo del ’92, la mafia uccise Salvo Lima, uomo di Andreotti in Sicilia e tradizionale figura di “ponte” tra i punciuti di Cosa Nostra e la Democrazia Cristiana, preparandosi a colpire gli altri personaggi presenti nella sua lista nera. I Carabinieri del Ros, dopo la morte di Giovanni Falcone nel maggio del ’92, cercarono dunque di “allacciare” gli esponenti dell’associazione criminale palermitana per trovare un accordo: a tal fine si servirono di Vito Ciancimino, politico democristiano corleonese e mafioso, avendolo inquadrato come figura funzionale al raggiungimento di un’interlocuzione con l’allora capo di Cosa Nostra Totò Riina. Il quale, infatti, rispose subito all’invito al dialogo con il famoso “papello”: un insieme di richieste presentate allo Stato in cambio della fine delle violenze, tra cui spiccavano la revisione della sentenza del Maxiprocesso e della Legge Rognoni-La Torre, l’annullamento del 41-bis, la riforma della legge sui pentiti e una lunga serie di benefici carcerari, oltre alla chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara.
Se i vertici del Ros e Marcello Dell’Utri sono stati assolti in Appello, ciò non è avvenuto per Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, i due mafiosi imputati nel medesimo processo (Riina e Provenzano sono, nel frattempo, deceduti). Se per il primo i giudici hanno derubricato il reato in “tentata minaccia”, applicando un leggero sconto sulla pena (27 anni di reclusione, uno in meno rispetto ai 28 comminati in primo grado), per Cinà, medico di Riina, la condanna non ha subito modifiche rispetto alla sentenza del 2018, trovando invece integrale conferma: 12 anni di reclusione. Un dato estremamente importante dal momento che, secondo l’accusa, egli avrebbe “preso in consegna” il papello di Riina, poi pervenuto a Vito Ciancimino. Segno evidente del fatto che l’effettiva sussistenza di quel segmento di trattativa, sebbene non sussunta dalla Corte sotto una fattispecie di reato, sia stata attestata anche dai giudici di secondo grado.
L’esistenza della trattativa, già sancita in altre sentenze passate in giudicato, è stata peraltro confermata dagli stessi attori istituzionali che ne sono stati protagonisti. Basti ascoltare la deposizione resa in Aula il 27 gennaio 1998 da Mario Mori a Firenze, in cui l’ex Ufficiale ha ricordato i dettagli di un dialogo avuto con Vito Ciancimino nell’estate del 1992: «Cominciai a parlare con lui e gli dissi: Signor Ciancimino, che cos’è questa storia? Ormai c’è un muro contro muro, da una parte c’è Cosa Nostra e dall’altra c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?». Mori asserì inoltre davanti ai giudici che il successivo 18 ottobre Ciancimino gli avrebbe confermato che, a determinate condizioni, «quelli [i mafiosi, ndr] accettano la trattativa». Un invito al dialogo da parte istituzionale che, secondo i giudici di primo grado, avrebbe suscitato nei mafiosi di Cosa Nostra la convinzione che “alzare l’asticella” del ricatto per mezzo delle stragi potesse condurre all’ottenimento di ulteriori benefici per l’organizzazione: ecco, dunque, la bomba di via D’Amelio del 19 Luglio ’92 (in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino, avvertito della trattativa pochi giorni prima di morire, insieme a cinque uomini della sua scorta) e quelle di Roma, Firenze e Milano del ‘93 (che provocarono complessivamente la morte di dieci persone, tra cui due piccole bambine, oltre al ferimento di decine di individui), culminate con il fallito attentato allo stadio Olimpico del 23 Gennaio 1994.
Occorrerà leggere le motivazioni del verdetto di Appello, che saranno pubblicate entro 90 giorni, per appurare come i giudici abbiano concepito l’intricato complesso di tali vicende nei loro rapporti causa-effetto. Nel frattempo, una parte consistente dell’universo antimafia è sulle barricate: questa sentenza segna, inequivocabilmente, la fine di un’epoca.
[di Stefano Baudino]