giovedì 26 Dicembre 2024

Verso un’era delle pandemie?

«L’Europa deve preparare le proprie strutture mediche a gestire un’era delle pandemie». Così, agli inizi di quest’anno, risuonavano le parole della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’affermazione, rappresenta di fatto un programma politico: l’attenzione non è sul come cercare di evitare che nuovi virus possano propagarsi, ma – dando per scontato che ciò accadrà – sul come affrontarli. Da tempo infatti la scienza invia moniti, l’ultimo con  un rapporto pubblicato da 26 scienziati in occasione del Global Health Summit del 21 maggio scorso: un elaborato con tutte le azioni necessarie per evitare nuove minacce infettive.

La ricerca si muove piuttosto sui vaccini di nuova generazione. In questo senso due ricercatori del prestigioso Scripps Research Institute di La Jolla hanno proposto, in un articolo pubblicato su Nature, una strategia per affrontare i futuri agenti infettivi: gli anticorpi ampiamente neutralizzanti (Pan-virus vaccine). La difficoltà nel trattare o debellare i virus, infatti, risiede, tra le altre cose, nella loro stessa natura ‘biologicamente indefinita’ che ostacola l’individuazione di una soluzione antivirale ad ampio spettro d’azione. Questi anticorpi agirebbero contemporaneamente contro ceppi diversi di virus correlati e, se venissero sviluppati e funzionassero, potrebbero essere utilizzati come farmaci di prima linea per prevenire o curare i virus di una data famiglia, inclusi nuovi ceppi o ceppi che non sono ancora emersi. Ancor più importante, potrebbero essere utilizzati per progettare vaccini a raggio d’azione più esteso e di sicura efficacia contro eventuali varianti.

È stato costruito un mondo a misura di virus

Il sorgere di nuovi virus tuttavia non è un accadimento inevitabile, ma un fatto che ha quasi sempre una sua genesi potenzialmente evitabile, al patto di essere pronti a riflettere e modificare l’impatto dell’uomo e della produzione sull’ambiente. Dal virus della Mers che prima di arrivare a noi è passato per i dromedari, all’HIV arrivato all’uomo direttamente dai cugini scimpanzé: non è un caso che tutte le patologie infettive potenzialmente epidemiche si siano sviluppate in contesti in cui lo spillover – il cosiddetto ‘salto di specie’ – sia stato agevolato. Stesso discorso per i focolai di Ebola e i due coronavirus che hanno provocato l’epidemia di SARS. E anche per quanto riguarda l’origine dell’agente virale scatenante la Covid-19, nonostante i dubbi sulla possibile origine da laboratorio, la maggior parte degli scienziati crede che si tratti di qualcosa di simile. «È noto che i pipistrelli sono portatori di coronavirus, e gli scienziati hanno determinato che il genoma di SARS-CoV-2 è assai simile a quello di RATG13, un coronavirus trovato per la prima volta in un pipistrello ferro di cavallo (Rhinolophus affinis) nella provincia meridionale cinese dello Yunnan nel 2013. Ma il genoma di RATG13 – si legge in un articolo de Le Scienze che approfondisce dettagliatamente la questione – è identico a quello di SARS-CoV-2 solo per il 96%, e ciò suggerisce che vi sia un parente più stretto di quest’ultimo virus, quello che è stato passato agli esseri umani, che resta ignoto. La possibilità che SARS-CoV-2 sia sfuggito a un laboratorio, comunque, rimane». Ad ogni modo, qualunque sia l’origine del patogeno, le cose non cambiano.

Ripensare il rapporto con la natura

Cambiamenti climatici e devastazione naturale non solo saranno quanto di più grave l’umanità dovrà fronteggiare, ma saranno essi stessi la causa scatenante le future pandemie. Un tema indubbiamente complesso ma, ogni giorno che passa, sempre più ben definito. Un report pubblicato dal WWF, ad esempio, appura che tra la perdita di biodiversità e il verificarsi di epidemie c’è uno stretto legame: «Il passaggio di patogeni dagli animali selvatici all’uomo è facilitato dalla progressiva distruzione e alterazione degli ecosistemi». Le specie selvatiche quindi, costantemente minacciate, vengono sacrificate in aree sempre più ristrette dove il contatto con le attività umane è via via maggiore. «In assenza di zone tampone naturali – spiega il rapporto – l’uomo è criticamente esposto a malattie che diversamente tenderebbero a diffondersi esclusivamente tra le specie animali».

Le istituzioni globali preferiscono curare

Il rischio di nuove epidemie derivante dalla devastazione naturale è concreto e sottovalutato. Le evidenze non mancano. Uno studio pubblicato recentemente su Nature Food, ad esempio, è perfino riuscito a generare una mappa delle aree cinesi più vulnerabili in tal senso. I ricercatori, allo scopo, hanno analizzato circa 30 milioni di chilometri quadrati di copertura forestale, agricola e artificiale, assieme alla densità del bestiame e della popolazione umana, la distribuzione delle specie di pipistrello e i cambiamenti nell’uso del suolo nelle regioni da quest’ultime popolate. I risultati hanno evidenziato che le interazioni uomo-bestiame-fauna selvatica in Cina possono originare hotspot potenzialmente in grado di incrementare la trasmissività dei coronavirus dagli animali all’uomo. Quindi, non solo la distruzione degli ecosistemi, anche gli allevamenti vanno considerati come dei ‘sorvegliati speciali’. Ma, ancora una volta, è la gestione umana a fare la differenza. Infatti, è quando gli animali sono tenuti in condizioni intensive e disumane che diventano focolaio di malattie zoonotiche, come già accaduto nel 2003, 2009 e 2012 per l’influenza aviaria e suina. Oppure, in tempi odierni, ce l’ha ricordato l’abbattimento di 17 milioni di visoni per impedire la diffusione di una delle prime varianti del SARS-CoV-2.

Insomma, le cause scatenanti future epidemie dipendono soprattutto dalle attività umane. Anziché prepararci ad affrontare nuove crisi sanitarie sarebbe indubbiamente più efficace agire a monte. Prevenire è sempre meglio che curare: nonostante non ci sia nulla di più vero, le istituzioni globali non sembrano darvi peso. Sebbene tra le raccomandazioni chiave del documento rilanciato dalla Commissione europea figuri “ridurre i rischi attraverso modi di vivere più sostenibili”, l’atteggiamento generale nei confronti della questione appare superficiale. Il vero focus, infatti, è sul preparare gli Stati a livello medico-sanitario, quando affrontare il problema alla radice sarebbe non solo più efficiente ma anche più economico. Se solo si decidesse di volerlo fare.

[di Simone Valeri]

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5 Commenti

  1. Gli allevamenti intensivi in particolare e lo sfruttamento degli animali in generale sono indifendibili ad ogni livello: etico, etologico ed evidentemente anche sanitario. Il vero ed importante cambio di mentalità su larga scala dovrebbe partire da lì; ma ovviamente, invece di eliminare in un colpo solo allevamenti intensivi e pandemie, continueremo a finanziare i primi in modo che contribuiscano allo sviluppo delle seconde, che poi correremo a tamponare con altri soldi pubblici (e per la gioia delle case farmaceutiche).

  2. Ottimo articolo, da l’informazione che ora è data di sapere. Si sa, da sempre, che le condizioni più favorevoli per sviluppare nuove malattie sono quelle di scarsa igiene.
    Allevamento intensivo è molto spesso sinonimo di scarsa igiene. Gli animali sono amassati uno sull’altro e non hanno alcuna libertà. Lo stress che questo tipo di trattamento genera, causa malattie, che possono rinforzarsi sempre più, anche perchè gli allevatori usano medicinali sempre più forti, per evitare il diffondersi di malattie, ma che, a lungo termine, creano delle varianti delle malattie sempre più resistenti e, potenzialmente, possono anche trasferirsi all’uomo.
    Questa e la realtà.
    Come difenderci? Questa è la domanda a cui la POLITICA deve rispondere.
    Dobbiamo evitare che le malattie possano trasformarsi in epidemie, quindi bisogna far si che cambi il modo di allevare gli animali e gestire meglio le risorse naturali che il mondo ha.
    Tornare in equilibrio, se non lo facciamo al più presto, la nautura, aiutata dalla fame di soldi dell’uomo, rimetterà tutto in equilibrio, creando malattie sempre più difficili da debellare.

  3. mi dispiace per il giornale ma non condivido nulla dell articolo in questione scritto su questa testata che dovrebbe essere di controinformazione ed invece mi sto rendendo conto che non lo è.

    • Mi sa che hai ragione. Il colpire il problema sanitario (senza x questo difendere gli allevamenti intensivi) sembra un copia incolla di eventi recenti per dissestare l’economia del settore piuttosto che approfondire e dimostrare il problema. Siccome si presume che una gestione sia dannosa perché potrebbe sfociare in pericolosi seguiti, allora si vorrebbe agire sulla gestione. Ma abbiamo prove che i pericolosi seguiti sono usciti da lì, e sono già esistiti? Chi compila i dati che vengono analizzati? Su quale base? Come vengono interpretati? Pare che un certo potere intenda dare interpretazioni uniche di cose che non possono assolutamente essere trattate con un unico focus. Gli allevamenti intensivi o meno, sono andati bene per tanto tempo. In merito a darne letture estreme, a nessuno viene in mente di verificare se nel passato hanno davvero provocato molti e seri problemi sanitari? Molti e seri, non significa beccarne un paio a dimostrazione della tesi. Ripeto, non sono a favore di intensificare alcunché. Ma nemmeno disposta a credere a fatti indimostrabili se non con teorie a senso unico. Giusto per spirito di conservazione, ecco, in quanto presto potrebbero dimostrare che proprio io sono l’elemento cruciale per il dissesto dell’ecosistema, con la stessa metodologia incontestabile. E infatti, respiro, inquino nel mio piccolo, potrei portare a spasso qualche malattia, consumo cibo e risorse varie, anche non rimpiazzabili ecologicamente. Quindi se io sono il problema, perché perdere tempo a cercare la mia utilità umana? La ragione per cui io abbia da esistere, in virtù di diritti umani? Se l’utilità biologica è nulla, mettendola per preminente, la seconda la scarichiamo come non pertinente al problema. Insomma, non so se mi sono spiegata, ma non sono per niente convinta che ci siano giuste valutazioni e ben supportate da prove, quando si cerca un capro espiatorio. Sembra solo una cosa comoda x alcuni, e facile da farsi approvare da tutti dopo aver distribuito il timore sociale verso il problema supposto. Supposizioni con supposte adeguate, ecco. Che sono efficacissime a costruire il solito codazzo di commenti allineati come quelli che vedo. Belli e animicamente propedeutici a sentirsi a posto con la coscienza. Peccato. Eravamo capaci di analisi molto più fini, prima di lasciarci convincere che devono farle altri.

  4. Grazie! Un’analisi lucida e puntuale che affonda le radici nel solito dilemma… perché non curare il problema alla radice e scegliere invece di correre ai ripari con inevitabili disastrose conseguenze? Ma già … la risposta si sa e l’avete sapientemente argomentata in un altro articolo sui ricchi, l’egoismo e la sete di potere.

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