Decine di indigeni si sono riuniti di fronte alla Casa Bianca, nella giornata di ieri, per chiedere a Biden e alla sua amministrazione di smettere di finanziare l’industria dei combustibili fossili e dichiarare la crisi climatica un’emergenza nazionale. La giornata di lunedì è stata la prima di cinque che avranno luogo questa settimana, durante le quali indigeni provenienti da tutto il Paese manifesteranno di fronte alla residenza presidenziale a Washington.
Le proteste sono parte del movimento People v Fossil Fuel Protests, organizzate dal gruppo Build Back Fossil Free. Si è trattato di un raduno pacifico, con i manifestanti che ballavano, cantavano e pregavano, ma la polizia ha comunque fatto ricorso agli LRAD, macchinari acustici utilizzati per la dispersione della folla.
⚠️ They have used the LRAD on Indigenous Elders, Water Protectors, and their allies on Indigenous Peoples’ Day ⚠️ pic.twitter.com/LaRsQRiyhV
— Indigenous Environmental Network (@IENearth) October 11, 2021
La protesta ha avuto luogo nel giorno del Columbus’ Day, giorno che Biden ha appena formalmente riconosciuto anche come Indigenous’ People Day, rispondendo alla necessità di promuovere un pensiero decolonizzato e l’equità razziale .L’Indigenous Environmental Network (IEN) ha però denunciato la mancata corrispondenza tra promesse e azioni del Presidente, lamentando il mancato impegno nel rispettare la sovranità indigena sui propri territori e non agendo rapidamente per mitigare gli effetti che i cambi climatici dovuti all’azione estrattiva dei combustibili fossili hanno sulle comunità indigene.
“Le proclamazioni non cancellano la sorveglianza della polizia sugli Indigeni che lottano per le nostre terre e acque, i pestaggi e le incarcerazioni di coloro che cercano di fermare gli oleodotti, la fatturazione idraulica, l’estrazione di gas naturali, uranio e altre industrie estrattive che devastano i nostri ecosistemi e i nostri corpi e violano i nostri diritti”, si legge nella proclamazione dell’IEN.
La presidenza Biden ha in effetti ignorato le proteste degli indigeni contro il potenziamento da 9 miliardi di dollari dell’oleodotto Enbrudge, che collega la città di Alberta (in Canada) con il Wisconsin. 900 persone sono stati arrestati nel corso delle proteste, come denunciato dall’IEN, ma non è servito a fermare la messa in funzione dell’oleodotto a partire dal primo di ottobre.
Il Washington Post riporta diverse testimonianze dell’impatto che i cambiamenti climatici hanno sulla vita delle popolazioni indigene, come quella di Siqiñiq Maupin, direttore esecutivo di Sovereign Iñupiat for a Living Arctic, il quale afferma che in Alaska ben 12 villaggi rurali devono essere ricollocati su territori più asciutti. L’Alaska è lo Stato con il maggior numero di rifugiati climatici negli Stati Uniti, afferma Maupin, che ha anche aggiunto come nel suo villaggio le persone abbiano iniziato a sviluppare rare forme di cancro e asma. Pur essendo schierate in prima persona per la tutela le proprie terre da trivellazioni e costruzione di oleodotti e per la conservazione della biodiversità, gli effetti dei cambiamenti climatici si fanno sentire in modo devastante per le popolazioni indigene.
Biden ha fatto alcuni passi avanti rispetto ai predecessori nell’impegno alla lotta contro la crisi climatica. Rientrare negli accordi di Parigi, impostare ambiziosi obiettivi di riduzione dei gas serra, cancellare la costruzione di alcuni oleodotti sono piccoli passi verso un obiettivo più verde. Moltissimi indigeni, tuttavia, stanno pagando a caro prezzo il ritardo e l’insufficienza delle azioni del governo.
[di Valeria Casolaro]