Negli ultimi giorni la valle del Kashmir, unica regione dell’India a maggioranza musulmana contesa da oltre settant’anni da India e Pakistan, ha subito un’ondata di uccisioni di civili appartenenti a minoranze religiose. Nello specifico, hanno perso la vita sette persone, quattro delle quali appartenenti a minoranze indù e sikh. Stando ai rapporti della polizia, quest’anno almeno 26 persone sarebbero state uccise in attacchi che si sono poi rivelati essere mirati.
Tutti omicidi, gli ultimi, svoltisi in pieno giorno. Come quello di un preside appartenente alla comunità religiosa sikh e il suo collega, induista, uccisi giovedì all’interno della loro scuola alla periferia di Srinagar, la città principale della regione. Secondo le testimonianze gli aggressori hanno prima controllato i documenti d’identità degli insegnanti per poi isolare e allontanare le vittime, prima di sparargli. Prima di loro la stessa sorte era toccata anche a un noto farmacista.
Alcuni ribelli, appartenenti al Fronte della Resistenza (TRF), hanno rivendicato le uccisioni. Si tratta di un gruppo militante che ha come obiettivo quello di combattere il dominio indiano e affiliato, secondo le autorità indiane, al gruppo armato islamista Lashkar-e-Taiba. Nato nel 2019 in seguito alla decisione del governo indiano di revocare lo status di semi-autonomia al Kashmir e arrestare i politici locali, il Fronte contesta l’abrogazione di due articoli ad hoc della Costituzione indiana. Si tratta dell’articolo 370, che lasciava al governo centrale di New Delhi la possibilità di legiferare solo su difesa, esteri e comunicazioni e l’articolo 35A che consentiva l’acquisto di terreni nel Jammu e Kashmir esclusivamente ai suoi residenti. in quell’occasione il governo indu-nazionalista di Narendra Modi inviò nella regione migliaia di militari per arrestare i parlamentari locali, lasciando poi la popolazione senza internet e elettricità.
In quest’ottica, almeno 900 abitanti del Kashmir, proveniente maggiormente dalla città di Sringar, sono stati arrestati nell’intento di trovare gli esecutori degli omicidi. Tra essi leader musulmani, insegnanti e in generale persone considerate “anti-India” e “simpatizzanti” dei gruppi separatisti del Kashmir.
Molte famiglie indù, tornate in Kashmir intorno al 2010 dopo l’esodo degli anni ’90, grazie a sostegni economici per vitto e alloggio, ora stanno lasciando la regione. I dati dicono che negli ultimi 10 anni circa 3.800 famiglie indù hanno fatto ritorno nella regione a maggioranza musulmana. A chi è rimasto, invece, le autorità hanno suggerito di rimanere in casa il più possibile. Pare che le recenti aggressioni non siano avvenute in un momento casuale. Nelle scorse settimane si sono recati in Kashmir più di 70 ministri del governo guidato dal partito Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro Narendra Modi. I rappresentanti politici in visita hanno sottolineato ed elogiato i “vantaggi della rimozione dell’articolo 370” dalla costituzione indiana.
Per l’Onu è urgente occuparsi della tutela delle minoranze: si potrebbe assistere, di fatto, ad un’alterazione demografica della regione, visto che etnie come quelle Dogri, Gojri, Pahari, Sikh, Ladhaki (e altre) non sono più al sicuro. I leader religiosi musulmani della regione hanno condannato le uccisioni, chiedendo ai fedeli di intervenire in termini di sicurezza e protezione. Dall’altra parte Human Rights Watch (HRW) ha chiesto che il governo stesso adotti misure per proteggere le minoranze del Kashmir.
[di Gloria Ferrari]