lunedì 4 Novembre 2024

Cannabis in Italia: le leggi proibizioniste ignorano la volontà popolare

Al contrario di quanto comunemente si ritiene, fino ai primi decenni del ‘900 la cannabis in Italia non era demonizzata. La famosa pianta poteva infatti essere liberamente coltivata, almeno fino a quando il fascismo non decise di dichiarargli guerra: da allora si sono susseguite diverse leggi, alcune più restrittive altre meno, ma comunque tutte basate su un approccio proibizionista. Nel frattempo, però, negli ultimi decenni tantissimi italiani si sono detti contrari alla criminalizzazione della cannabis ma la loro voce è rimasta finora grossomodo inascoltata, e ad oggi le politiche proibizioniste la fanno ancora da padrone.

La cannabis prima del proibizionismo

Nel primo secolo dopo Cristo, sono le legioni romane ad iniziare a coltivare la pianta per costruire corde e vele per le navi da guerra. Durante l’antichità classica rimane questo il suo utilizzo principale, mentre nei primi secoli del medioevo la coltura della canapa diviene predominante in molte campagne italiane. Intorno all’undicesimo secolo diventa piena di cannabis la pianura padana, dove viene lavorata la sua fibra così da esaudire le richieste dell’industria mercantile di Venezia. Successivamente, nel 1617, con il fine principale di rifornire l’esercito sabaudo il governo piemontese investe nella costruzione della prima fabbrica moderna di corde di canapa, e nello stesso periodo il porto di Genova diviene un’area fondamentale in ottica commercio di canapa: da lì infatti il prodotto italiano viene esportato in diversi paesi europei.

Con l’unificazione d’Italia del 1861, poi, lo stato decide di incrementare la produzione nazionale di canapa. Nascono così diversi stabilimenti in cui si produce di tutto, come ad esempio corde, gru, tende e forniture per marina, esercito, ferrovie ed ospedali. Ciò garantisce un posto di lavoro a circa ventimila persone, alle quali vanno aggiunte altre decine di migliaia che si occupano della produzione nei campi. L’Italia diviene così il primo produttore di Canapa al mondo a livello qualitativo ed il secondo a livello quantitativo.

L’inizio delle politiche proibizioniste

Negli anni del fascismo inizialmente la situazione resta la medesima. Mussolini sottolinea l’importanza della canapa dal «lato economico agrario» e dal «lato sociale» e tra il 1936 e il 1940 la produzione di canapa in Italia supera le centomila tonnellate, segnando il suo storico record. Tuttavia, il destino del settore è ormai scritto: sulla scia del proibizionismo affermatosi definitivamente negli Stati Uniti nel 1937, anno in cui la cannabis diviene illegale in tutto il territorio tramite il Marihuana Tax Act, anche Mussolini sceglie di sposare le politiche proibizioniste. Prima dell’avvicinamento alla Germania nazista, infatti, il governo italiano e quello statunitense sono in buoni rapporti ed il duce negli anni ’30, nonostante come droga non sia utilizzata praticamente da nessun italiano, definisce la cannabis una «droga da negri».

Viene così introdotta nell’elenco delle sostanze stupefacenti contenute nel Codice Penale del 1930, con l’articolo 447 che punisce la vendita e l’agevolazione del consumo di ogni sostanza vietata, e l’articolo 729 che prevede una pena detentiva o pecuniaria per chiunque sia colto «in luogo pubblico o aperto al pubblico, o in circoli privati, in stato di grave alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti». Non è prevista alcuna sanzione penale per il consumatore, tuttavia il consumo viene considerato una patologia da curare obbligatoriamente recandosi ai centri di malattia mentale.

Le tante leggi anti-cannabis

Successivamente si susseguono tantissime leggi proibizioniste. La regolamentazione muta infatti nel 1954 ed il consumatore viene punito penalmente con la legge n. 1041 di quell’anno, che prevede il carcere per chiunque «acquisti, venda, ceda, esporti, importi o detenga sostanze o preparati indicati nell’elenco degli stupefacenti». Ad essa succede la legge n. 685 del 1975, approvata dal governo guidato dal democristiano Aldo Moro, che risulta nettamente migliorativa per i consumatori. Vengono infatti distinti consumo e spaccio, e solo quest’ultimo è punito con il carcere: la detenzione di modiche quantità ad uso personale viene depenalizzata. Tuttavia, la legge non introduce miglioramenti per le coltivazioni e spesso gli agenti sequestrano anche quelle di canapa industriale. Per i pochi canapicoltori rimasti la vita è divenuta perciò impossibile, ed alla fine degli anni ’70 tale settore produttivo svanisce definitivamente.

Negli anni ’90 la regolamentazione cambia ancora e prende vita la legge voluta dal capo del governo Bettino Craxi. Classificata come Dpr 309/90 ma nota come “Iervolino– Vassalli” (i due parlamentari firmatari della proposta), stabilisce che l’uso personale di droga, sia leggera che pesante, rappresenta un illecito. Essa tuttavia non prevede sanzioni penali bensì amministrative, ma solo se il quantitativo posseduto non è superiore alla «dose media giornaliera». Per la produzione e lo spaccio introduce invece una differenziazione (di pena) tra droghe pesanti e leggere, prevedendo però sempre la reclusione.

Così, la popolazione carceraria aumenta notevolmente e la legge viene accusata di essere liberticida. In Italia inizia dunque a prendere piede un movimento antiproibizionista che si rivela molto radicato dato che vengono raccolte le firme necessarie per depositare una proposta di referendum abrogativo dei Radicali, il quale viene poi votato nell’aprile 1993. Il risultato è l’abolizione, con il 55% dei favorevoli, della sanzione del carcere per l’uso personale di droga, eliminando dunque il limite della dose media giornaliera. Ma dopo questa vittoria la lotta degli antiproibizionisti prosegue, e nel 1995 parte la raccolta firme per un referendum che prevede la rimozione della cannabis dalle sostanze vietate e, quindi, la legalizzazione. In pochi mesi vengono raccolte oltre mezzo milione di firme e nel gennaio del ’96 la proposta viene depositata ufficialmente. Tuttavia gli italiani non potranno esprimersi poiché la Corte Costituzionale non la approverà.

Successivamente, nel 2006 vi è una svolta repressiva nelle modifiche alla legge Iervolino Vassalli con la “Fini-Giovanardi”, ovvero un decreto-legge poi convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, con cui vengono equiparate le droghe pesanti e quelle leggere. Gli effetti del referendum vengono depotenziati andando a colpire l’acquisto e il consumo di gruppo inserendo nel testo la parola «esclusivamente». È infatti ammesso il consumo «esclusivamente personale», il che significa che chi acquista marijuana per sé e qualche amico è uno spacciatore. La Fini-Giovanardi arriva perciò a produrre il 38,6% dei detenuti, e molti di essi sono consumatori o piccoli spacciatori di cannabis.

La situazione attuale

Nel 2014 il proibizionismo estremo termina, poiché con la sentenza n. 32 del 2014 la Corte Costituzionale dichiara la legge incostituzionale per il modo in cui è stata approvata. Così, a causa del vuoto normativo creatosi, torna la legge Iervolino-Vassalli (tuttora in vigore), che viene però leggermente modificata dalla cosiddetta “legge Lorenzin” del 2014. Essa introduce alcune misure tra cui soprattutto la riduzione delle pene relative al piccolo spaccio ad un massimo di 4 anni, mentre precedentemente a seconda della sostanza potevano arrivare anche a 6 anni. Da citare, poi, la sentenza n.40 del 2019 della Corte Costituzionale con cui viene dichiarata illegittima la «pena minima della reclusione di otto anni anziché sei» prevista per chi «coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna sostanze stupefacenti».

Ad ogni modo, il sovraffollamento delle carceri continua tutt’oggi a rappresentare un problema: nell’ultima edizione del Libro Bianco, un rapporto annuale che analizza gli effetti delle politiche proibizioniste in Italia, si legge che «in assenza di detenuti per l’art. 73 non vi sarebbe il sovraffollamento carcerario». Inoltre per ciò che concerne le segnalazioni per semplice consumo, per il quale sono invece previste sanzioni amministrative, «1.312.180 persone dal 1990 sono state segnalate, di cui il 73,28% per derivati della cannabis».

Detto ciò il popolo italiano, così come emerso anche in passato, sembra però essere propenso ad adottare politiche antiproibizioniste. Basterà ricordare la recente proposta di referendum che punta a raggiungere la depenalizzazione del consumo di cannabis e per la quale, in pochissimi giorni, sono state raccolte e superate le 500mila firme. Sembra ormai chiaro a tantissimi cittadini, dunque, che quella della cannabis è diventata una questione sociale declinata come fatto criminale, motivo per cui c’è evidentemente bisogno di una presa di coscienza da parte della politica.

[di Raffaele De Luca]

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