Amnesty International ha pubblicato un rapporto sulle condizioni degli operatori sociosanitari dipendenti delle RSA durante la prima ondata della pandemia, dal titolo Messi a tacere e inascoltati in piena pandemia. Le numerose testimonianze raccolte descrivono inadatte condizioni di sicurezza e lavoro nelle strutture, con turni massacranti e veti sull’uso delle protezioni. Coloro tra i dipendenti che hanno denunciato gli abusi subiti e la totale assenza di sicurezza sono stati sottoposti a pressioni e ritorsioni, fino alla perdita dell’impiego. Le inadeguatezze preesistenti hanno esacerbato gli effetti della pandemia: il 65,6% dei lavoratori che hanno contratto il Covid sul posto di lavoro sono operatori e operatrici sanitari e sociosanitari.
Secondo quanto riportato, denunciare irregolarità nella gestione dell’emergenza ha infatti comportato il licenziamento di diversi tra gli operatori. Una di loro afferma: “Ci avevano detto di non usare le mascherine per non creare panico a utenti e famiglie, ma eravamo già in pieno Covid, verso fine febbraio o inizio marzo [2020]. Ci siamo ribellati e abbiamo fatto denuncia contro la persona che ci ha ammonito di non usare le mascherine. Io sono stata messa in quarantena preventiva per motivi politici e al rientro ho dovuto fare il tampone […] Le ripercussioni sono iniziate subito dopo le denunce”. Alcune strutture hanno minacciato di denunciare persino i delegati sindacali per diffamazione, per via “del loro impegno nella tutela dei diritti dei/le lavoratori/trici”. Un intervistato riporta una condizione di “perenne ricatto” possibile anche a causa del bassissimo livello di sindacalizzazione tra i dipendenti del settore: “se vengono a sapere che sei iscritto al sindacato ti fanno fuori professionalmente”.
Questo avviene perché mentre nel settore pubblico è un ente indipendente centralizzato a raccogliere le segnalazioni di irregolarità sul posto di lavoro (l’Autorità nazionale anticorruzione), nel settore privato sono le singole imprese a istituire sistemi interni di segnalazione. Da questo il rapporto di Amnesty deduce che “La possibilità che gli/le operatori/trici sanitari/e e sociosanitari/e delle strutture private abbiano avuto accesso a procedure adeguate a denunciare irregolarità durante la pandemia è oggetto di forti dubbi”. Le differenze tra i due settori riguardano anche fattori come il salario, nel pubblico superiore anche del 20 o 30 percento a parità di ruolo.
Tali fattori discriminanti portano le strutture private a disporre di personale insufficiente, che a sua volta comporta orari lavorativi più lunghi ed estenuanti per gli operatori. Un dipendente riporta che “Durante l’emergenza varie persone dello staff hanno lasciato […] A volte lavoravo anche 16 ore al giorno, oppure facevo il turno di notte e poi lavoravo di nuovo il giorno dopo senza riposo, o facevo tre o quattro notti consecutive, che è anche illegale. È stato veramente stressante e stancante. Anche i turni venivano riadattati quotidianamente e non c’era modo per negoziare o pianificare la tua vita personale”. Molte altre testimonianze raccolte descrivono la medesima situazione. Ad aggravare il tutto vi è il fatto che durante la prima ondata il personale delle RSA non abbia avuto accesso al test diagnostico sino ad aprile 2020, moltiplicando così il numero dei contagi. Complice di tutto ciò è la limitata capacità dell’Ispettorato del lavoro di compiere le necessarie verifiche, nonostante le ripetute segnalazioni dell’Usb (l’Unione sindacale di base).
Dopo l’allarme dei lavoratori e dei sindacati, Amnesty ha lanciato un appello al Parlamento, chiedendo che sia istituita “una commissione d’inchiesta indipendente che indaghi sulla risposta delle autorità alla pandemia da Covid-19, con un focus specifico sulle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali”.
[di Valeria Casolaro]