Con 452 voti a favore, 170 contrari e 76 astenuti, nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha approvato il testo della strategia chiamata “Farm to Fork” (letteralmente dal produttore al consumatore), ritenuta il fulcro del Green Deal che mira a fare dell’Europa il primo continente a zero emissioni entro il 2050. Ciò significa che da ora in poi si potrà concretamente lavorare sugli obiettivi previsti, presentando proposte di legge, nonostante la forte opposizione di decine di lobby agroalimentari.
Per capire il motivo della loro disapprovazione è necessario fare un passo indietro e spiegare in cosa consiste la Farm to Fork. Si tratta di un piano che ruota principalmente attorno a sei macro-obiettivi, elencati nell’inchiesta condotta di Irpimedia. Fra questi: riduzione del 50% dell’uso di pesticidi chimici; il dimezzamento della perdita di nutrienti e quindi la riduzione di almeno il 20% dell’uso di fertilizzanti; la riduzione del 50% di antimicrobici per gli animali d’allevamento e di antibiotici per l’acquacoltura; un aumento del 25% dei terreni agricoli destinati all’agricoltura biologica e infine la riduzione del 10% del suolo utilizzato per gli allevamenti intensivi. E ancora: una nuova etichettatura nutrizionale, un miglioramento del benessere degli animali e l’inversione della perdita di biodiversità.
È più facile, adesso, intuire le preoccupazioni delle lobby. Diminuire l’uso di pesticidi, ad esempio, e ridurre la quantità di fertilizzanti significherebbe perdere una grossa fetta di produzione. Motivo per cui le lobby stesse hanno chiesto a gran voce alla Commissione europea una valutazione sull’impatto che il piano avrebbe su di loro, in particolar modo sulla perdita di competitività delle aziende europee sul mercato agroalimentare. Insomma, tentano, di fatto, di giocare al ribasso, schierando coalizioni formate da grossi agricoltori e produttori di carne, a cui si sono aggiunti i colossi dell’industria dei pesticidi.
In particolare, le lobby lamentano un ipotetico aumento dei costi di produzione e dei prezzi del prodotto finale, che spingerebbe il consumatore a rivolgersi altrove, per risparmiare. A sostegno della loro tesi hanno anche commissionato diversi studi (giudicati da molte associazioni imparziali e di parte) e finanziato diverse campagne informativa online. Negli studi si parla quasi sempre dell’aumento dei prezzi, tema centrale e di vitale importanza per i grandi produttori. Di fatto, niente a che vedere con la salvaguardia dell’ambiente e nessun aspetto positivo citato. E ce ne sarebbero molti, oltre a quelli strettamente legati alla riduzione di anidride carbonica, ad esempio. Diminuire la produzione delle grandi “catene” significa fare spazio alle piccole aziende che già producono e vendono a prezzi più alti.
Infatti la gran parte degli agricoltori e degli allevatori intervistati da Irpi ha detto di non conoscere la F2F, perché “Per noi piccole aziende con poca manodopera è difficile essere informati su cosa accade in Europa e su tutti gli incentivi”. Ma in ogni caso, per loro non sarebbe un problema adeguarsi a nuove e più rigide normative, visto che la maggior parte di loro lo fa già. «Se fanno costare il pomodoro due euro al chilo io sono felice perché tanto comunque a cinque li vendo. Il piccolo produttore non ha nessun problema con questa iniziativa»
Eppure un’azione urgente è necessaria, proprio da parte di quelle lobby che tanto lottano per tenersi strette i loro pesticidi. La sola industria agroalimentare è responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra. Nello specifico, 17 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, di cui il 29% deriva dalla produzione di alimenti di origine vegetale e il 57% dai cibi di origine animale.
[di Gloria Ferrari]