sabato 21 Dicembre 2024

Il filo nero che lega stragi di mafia, servizi segreti e strategia della tensione

Palermo, aprile 2015. Nella cornice del processo che vedeva imputati gli ufficiali del Ros Mario Mori e Mario Obinu per la mancata cattura di Bernardo Provenzano dell’ottobre 1995, a deporre in Aula è il colonnello Michele Riccio. Quest’ultimo è il carabiniere che ha raccolto le confidenze di Luigi Ilardo, l’ex mafioso di spicco di Cosa Nostra che aveva coraggiosamente scelto di infiltrarsi nell’organizzazione criminale di cui faceva parte al fine di contribuire alla cattura di una serie di latitanti e fornire la “fotografia” di Cosa Nostra nei suoi rapporti interni ed esterni. «Nell’estate del ’93 – ha riferito Riccio – De Gennaro (direttore della Dia, alle cui dipendenze Riccio lavorava, ndr) mi affida la gestione di Ilardo, perché poteva aiutarci ad individuare i mandanti esterni sulle stragi del ’92-’93. Ilardo mi disse che si trattava di personaggi appartenenti a quegli stessi ambienti che negli anni Settanta posero in essere una strategia della tensione». Ilardo gli aveva infatti riferito di «aver fatto parte di un certo contesto mafioso, vicino all’eversione di destra, che era in contatto con apparati deviati dello Stato» e che «molti attentati erano stati addebitati a Cosa Nostra, ma i mandanti venivano dall’esterno. Mi parlò – ha affermato il colonnello – di Mattarella, Pio La Torre, Insalaco, dell’attentato dell’Addaura: disse che ne avrebbe parlato davanti all’autorità giudiziaria, una volta diventato collaboratore di giustizia». Cosa che, però, non accadde: Il 10 maggio 1996, pochi giorni prima di entrare ufficialmente nel programma di protezione, Ilardo venne crivellato di colpi a Catania, sotto casa sua. La Corte d’Assise di Catania ha asserito che l’omicidio Ilardo venne “organizzato e portato a termine da Cosa Nostra catanese” e, in merito all’accelerazione del progetto omicidiario, ha stabilito che “la sequenza cronologica dei fatti è senza dubbio idonea a far ipotizzare una fuga di notizie da vertici istituzionali”. Questa sentenza, nella quale entra direttamente, ancora una volta, l’eco di pesantissime responsabilità istituzionali, sarà confermata anche in Appello.

Nel novembre del 2015, Riccio ha dichiarato al processo “Trattativa Stato-mafia” che «Ilardo commentò che (le stragi del 1993, ndr) erano attentati che rientravano in quella strategia mafiosa di Riina, Bagarella e Brusca per ristabilire quel contatto con le istituzioni, per tornare a condizionarle come nel passato. Tutta questa strategia non era solo di Cosa nostra e per capirla si doveva guardare al passato. Lui mi disse che questi attentati sono applicati con lo stesso fine e lo stesso metodo dallo stesso ambiente, che cambiano gli attori ma che queste stragi sono state fatte su input di questi settori deviati e non voluti direttamente dai vertici mafiosi». Perché le parole di Ilardo avevano fatto tremare una grossa fetta dell’apparato istituzionale italiano? Ripartiamo dall’inizio.

La strategia della tensione

Con il termine “Strategia della tensione”, coniato dal settimanale britannico “The Observer”, indichiamo quell’opera eversiva, circoscrivibile agli anni settanta del secolo scorso, condotta da un variegato universo composto da attori istituzionali italiani e internazionali (tra i quali la CIA e i vertici dei servizi segreti civili e militari del nostro Paese), logge massoniche, organizzazioni paramilitari clandestine e lobbies affaristiche, che si concretizzò negli attentati eseguiti dai gruppi neofascisti organizzati per la lotta armata contro lo Stato (come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale). Essa fu posta in essere con una finalità specifica: “destabilizzare per stabilizzare”, creare un crescendo di tensioni sociali per mezzo di stragi e violenze talmente inaudite da instillare insicurezza, paura e terrore nella popolazione, così da rendere auspicabile agli occhi dell’opinione pubblica un intervento statale di stampo autoritario. La finalità sottesa a tale disegno, a cui a livello mediatico concorsero innumerevoli agenzie e testate giornalistiche che sposarono la strategia della “guerra psicologica”, era ovviamente quella di scaricare la responsabilità politica del terrore sugli ambienti della sinistra, al fine di disinnescare le ambizioni governative del Partito Comunista Italiano e la svolta della Democrazia Cristiana verso un dialogo coi comunisti. In questo quadro rientrano, per citare solo le più famose, le stragi di Piazza Fontana (’69), di Peteano (’72), di via Fatebenefratelli a Milano (’73), di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus (’74), fino ad arrivare alla strage di Bologna (’80). Tutti questi episodi hanno un denominatore comune: i depistaggi ad opera di settori deviati dello Stato.

Le stragi mafiose

Sono proprio i depistaggi ad accomunare le stragi terroristiche di matrice neofascista degli anni di piombo a quelle di mafia del 1992-1993. Giovanni Falcone venne ucciso il 23 Maggio 1992 e, sebbene nei mesi precedenti la mafia avesse potuto colpire il giudice con un commando armato che seguiva i suoi spostamenti nella città di Roma (dove ricopriva il ruolo di Direttore generale degli affari penali al Ministero della Giustizia), l’attentato di Capaci fu studiato scientemente affinché la sua resa fosse tragicamente scenografica e dunque ancor più destabilizzante. Infatti, nel Febbraio 1992, Riina fece arrivare ai suoi uomini “in trasferta” il contrordine: bisognava organizzare un “attentatuni” di proporzioni macroscopiche e farlo in Sicilia. Dopo la morte del giudice, qualcuno ebbe accesso alla sua agenda elettronica Casio e manomise alcuni file, tra cui quelli che contenevano le schede di Gladio, struttura paramilitare clandestina operante in Italia su cui il giudice stava concentrando le sue indagini. Elaborata dai membri permanenti dell’alleanza atlantica con finalità resistenziale rispetto al pericolo comunista, l’organizzazione era coordinata dal Gladio Committee, organismo bilaterale composto dalla CIA e dal servizio segreto militare italiano (SIFAR). Interessante è inoltre notare come Pietro Rampulla, il mafioso noto come “l’artificiere”, identificato per avere avuto un ruolo fondamentale nella strage che uccise il giudice Falcone e gli uomini della sua scorta (confezionò l’ordigno che venne posto sotto l’autostrada) e che fu per questo condannato all’ergastolo con sentenza definitiva, fosse militante di Ordine Nuovo e molto vicino a Rosario Pio Cattafi, mediatore tra gli ambienti di Cosa Nostra, dei servizi e della massoneria deviata.

L’omicidio Borsellino

Anche la strage di Via d’Amelio è caratterizzata dalle stesse ombre. Il primo aspetto saliente è l’improvvisa accelerazione del delitto decretata da Totò Riina. Paradossalmente, ciò avvenne nel momento meno favorevole per Cosa Nostra, dal momento che il Parlamento stava lasciando decadere il Decreto che, dopo la morte di Falcone, aveva introdotto il regime di carcere duro 41-bis: ovviamente, sull’onda dell’indignazione popolare, esso fu convertito in legge subito dopo la morte di Borsellino. Dalle testimonianze dei pentiti ascoltati da Borsellino e dei familiari del giudice sappiamo che, proprio nel corso delle settimane precedenti alla sua morte, egli aveva scoperto i legami con Cosa Nostra del numero tre del SISDE Bruno Contrada e che un uomo gli aveva riferito che il Generale Subranni (il capo del raggruppamento che stava portando avanti la cosiddetta “Trattativa Stato-mafia”, ovvero il ROS dei Carabinieri) fosse “punciuto”, ovvero affiliato alla mafia. Sarà un caso ma, come riferito dallo stesso colonnello Michele Riccio, l’infiltrato Luigi Ilardo gli parlò anche delle collusioni con la mafia di Antonio Subranni e di Bruno Contrada, definendo quest’ultimo «l’anello di congiunzione tra mafia e istituzioni, l’uomo dei misteri».

Sappiamo poi che Gaspare Spatuzza, il mafioso che materialmente eseguì la strage (organizzata dai fratelli Graviano, i boss di Brancaccio), incontrò all’interno del garage in cui venne imbottita di tritolo l’autobomba che provocò la morte del giudice un membro esterno a Cosa Nostra, da lui inizialmente indicato come somigliante a un appartenente dei servizi segreti. Inoltre, pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, districandosi tra cadaveri bruciati e macchine fumanti, una mano istituzionale tolse dal perimetro della strage l’agenda rossa in cui il giudice stava annotando tutti gli spunti investigativi emersi dopo la morte di Giovanni Falcone.

Una logica “politica”

Qual è, insomma, il legame che unisce la logica sanguinaria della strategia della tensione degli anni ’70 e quella del terrorismo mafioso del ’92 e del ’93 (anno in cui, alzando l’asticella del ricatto, Cosa Nostra colpì le città del nord e del centro Italia, provocando la morte di 10 persone, tra cui due piccole bambine)? Innanzitutto, il clima di fortissima instabilità politica. Nel primo caso, essa fu manifestata dal grande successo del PCI alle elezioni nazionali del 1968 e dalle lotte sindacali operaie e studentesche che avevano animato l’ “autunno caldo” del 1969; nel secondo caso, occorre ricordare come le inchieste di Mani Pulite avessero raso al suolo i partiti “storici” della prima repubblica (compresi la DC, tradizionale referente di Cosa Nostra, e il PSI, che la mafia appoggiò in ottica garantista alle elezioni del 1987 per punire i democristiani che non avevano ottenuto lo stop del Maxiprocesso), aprendo le porte al potenziale trionfo della “Gioiosa macchina da guerra”, coalizione di sinistra guidata da Achille Occhetto alle elezioni del ’94: pericolo scongiurato dalla discesa in campo di Berlusconi, resa pubblica il 26 Gennaio 1994 (data che, coincidenza delle coincidenze, segnerà la fine della campagna stragista mafiosa dopo il fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma datato 23 gennaio, che non verrà più replicato). Storicamente provati sono i collegamenti tra Forza Italia e gli ambienti mafiosi (Berlusconi finanziò Cosa Nostra per vent’anni, firmando un patto di protezione con il boss Stefano Bontate nel ’74; Marcello Dell’Utri, braccio destro del Cavaliere e intermediario di questo patto, è stato condannato definitivamente a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa; numerosi pentiti di prim’ordine hanno confermato l’appoggio mafioso al progetto berlusconiano) e con la massoneria (il Cavaliere aderì alla P2 di Licio Gelli con la tessera 1816 e altri deputati di Forza Italia sono presenti nelle liste degli appartenenti alla Loggia). Il Generale Mori, che in qualità di Ufficiale del ROS fu protagonista della mancata perquisizione del covo di Riina e del mancato arresto di Bernardo Provenzano, giocando peraltro un ruolo fondamentale nella trattativa Stato-mafia, sarà nominato capo dei servizi segreti dal Governo di Silvio Berlusconi, che guiderà da Premier il Paese per quattro volte.
“Destabilizzare per stabilizzare”. Ancora una volta.

[di Stefano Baudino]

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