“Noi del sottosuolo bisogna tenerci a freno. Siamo magari capaci di starcene in silenzio nel sottosuolo per quarant’anni, ma se una volta usciamo alla luce, e ci apriamo un passaggio, allora si parla, si parla, si parla…” (F. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, 1864).
“Si è come malati senza libri. L’essenza della mia anima è come stordita. Quante ore perdute, quante ricchezze sfuggite, inaccessibili… Ma con rimpianto penso alla vita vera, quella degli uomini liberi… Una sfiducia generale regna nel campo e nella nostra baracca. Il disinteresse più assoluto per la sorte degli altri, la mancanza di solidarietà e di cordialità. È quasi impensabile uno scambio di idee qualunque, un contatto intellettuale o semplicemente umano” (Hanna Lévy-Hass, Diario di Bergen-Belsen, 29 agosto 1944).
“Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importano i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione… è il potere magico delle cose. Lo Stato è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue… A che cosa valgono le parole? E che cosa si può fare? Niente.” (C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, 1945).
“Ogni parola scritta e ogni parola a segni si sono trovate sorelle… Il segno, questa danza delle parole nello spazio, è la mia sensibilità, la mia poesia, il mio intimo, il mio stile vero…Gli udenti non si sforzano abbastanza. Ce l’ho con loro… Riesco a chiamare qualcuno soltanto tirandolo per un lembo del vestito. Una manica, il fondo della gonna o dei calzoni… L’indomani della cerimonia dei Molières, nei giornali, a caratteri cubitali, suppergiù lo stesso titolo: ‘La sordomuta ottiene il Molière’. Non Emmanuelle Laborit… Il mio nome è scritto a caratteri piccolissimi sotto la fotografia” (E. Laborit, Il grido del gabbiano, 1994).
La libertà, prima di tutto, è fatta di parole. Dostoevskij e Hanna Lévy-Hass, nel loro spazio concentrazionario, Carlo Levi, confinato nel paesino dal regime fascista, Emmanuelle, isolata dal mondo perché sordomuta in forma grave, ma poi vincitrice come attrice del premio Molière, tutti convergono a pensare alla parola, alle parole come veicolo di libertà. E di pensiero.
Il filosofo americano Charles Peirce, 1868, ricordava che l’essere umano isolato non potrebbe realmente né ignorare, né sbagliare; il pensiero infatti è tale perché esso si rivolge ad altri, perché diventa parola-segno, perché produce un pensiero successivo, da qualcun altro più o meno condiviso: “L’esistenza del pensiero in questo momento dipende da ciò che sarà tra poco: esso ha soltanto un’esistenza potenziale, che dipende dal futuro pensiero della comunità”.
Anche il fraintendimento è dunque parte costitutiva della libertà di parola come pure, ovviamente, il consenso inatteso.
Ne discende la necessità, l’importanza del dialogo, dell’esercizio sociale della parola, come hanno sostenuto molti filosofi e linguisti russi, da Mihail Bachtin a Vygotskij: “Tutta l’attività della coscienza è connessa con lo sviluppo della parola: essa è assolutamente impossibile per una persona sola ma è possibile per due… La coscienza riflette se stessa nella parola come il sole in una piccola goccia d’acqua. La parola sta alla coscienza come una cellula viva al suo organismo, come l’atomo al cosmo. La parola dotata di senso è il microcosmo della coscienza umana” (Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934).
L’idea che la coscienza non si attivi semplicemente con un dialogo con se stessi ma attraverso una verifica, con altri soggetti parlanti, dei contenuti e delle intenzioni del linguaggio certamente porta a delle conseguenze. Scriveva ad esempio Marcel Proust che “la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri”.
Tutte condizioni, per semplificare, che corrispondono all’idea di responsabilità: il bisogno di risposta che è insito nel nostro parlare ed agire si può soddisfare soltanto se chi ha preso la parola non smentisce quanto ha detto, semmai rettifica, precisa, si corregge oppure conferma, argomenta, insiste. Eppure l’ipocrisia, cioè la volontà di nascondere intenzioni utilitaristiche dietro formalismi di trasparenza e correttezza, è una delle trappole del sistema democratico. Come il disaccordo pregiudiziale, la volontà di essere ostili, di non capire o di non cedere, tipica dei social.
Da qui la profonda difficoltà a condurre dibattiti costruttivi, ad esempio in televisione, se il conduttore ha idee e valutazioni precostituite. Lo spettatore non si sentirà più rappresentato e subentrerà la sfiducia, la disillusione, la rabbia; avvertirà, come annotava Kierkegaard, di far parte “di un gigantesco qualcosa, un vuoto astratto e deserto che è tutto e nulla” (L’età presente, 1846).
La libertà dunque è parola ma è soprattutto lasciare la parola, liberarla dalle nostre intenzioni, accettare che assuma altri destini, cioè altri significati.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]