domenica 22 Dicembre 2024

Non solo CO2: i “dimenticati” della crisi ambientale

Volendo risalire alle cause del riscaldamento globale, o del più ampio cambiamento climatico, ormai sappiamo bene su chi puntare il dito: la famigerata anidride carbonica, le cui parti per milione in atmosfera ogni anno raggiungono nuovi picchi avvicinando la temperatura media della Terra verso soglie sempre più allarmanti. C’è quindi indubbiamente del vero, tuttavia, stiamo banalizzando: la CO2 derivante dalle nostre attività non è infatti l’unica colpevole. Pensiamo al metano, altro gas serra di gran lunga più potente dell’anidride carbonica. Sebbene meno persistente in atmosfera, la quota di emissioni che lo riguardano è tutt’altro che trascurabile. Ma anche in questo caso, e pure se aggiungessimo alla lista degli imputati tutti i gas climalteranti noti, staremmo comunque dimenticando qualcosa.

Si cercano soluzioni solo in una direzione

La crisi climatica odierna è infatti il risultato dell’interazione tra più fattori, non ultimo l’alterazione dell’ambiente naturale. Nonostante buona parte delle cause di perdita di biodiversità sia a sua volta responsabili del cambiamento climatico, ancora cerchiamo soluzioni solo in una direzione. Eppure, non sembra poi così complesso: gli ecosistemi terrestri e acquatici assorbono quasi il 50% della CO2 proveniente dalle emissioni antropiche, cosa accadrebbe se questa loro funzione venisse meno a causa della devastazione già in atto? In parole povere, tra inquinamento e deforestazione, stiamo compromettendo l’unica arma naturale a nostra disposizione per contrastare il riscaldamento globale. Al riguardo, la comunità scientifica ha proprio recentemente sottolineato quanto cambiamento climatico e perdita di biodiversità siano due facce della stessa medaglia. Infatti, nessuno dei due problemi sarà risolto con successo a meno che non vengano affrontati insieme. Finora però le due questioni sono state trattate separatamente e, a dirla tutta, ecosistemi e diversità biologica sono passati in secondo piano, come se le problematiche che li riguardano, in relazione alla crisi climatica, fossero marginali. Il pianeta, ed ogni sua componente, è tuttavia più interconnesso di quanto la nostra mente sia in grado di percepire. Vien da sé che la transizione – sebbene quella pianificata appare più energetica che altro – non a caso, è necessario che sia ecologica. «Il ripristino degli ecosistemi – hanno scritto 50 tra i maggiori esperti mondiali di biodiversità e clima – è tra le misure di mitigazione basate sulla natura più economiche e rapide da implementare. Riqualificando, si fornisce habitat indispensabile per piante e animali e si migliora la resilienza della biodiversità di fronte ai cambiamenti climatici, insieme a molti altri benefici: regolazione delle inondazioni, protezione delle coste, miglioramento della qualità dell’acqua, riduzione dell’erosione del suolo e garanzia dell’impollinazione. Il ripristino ecosistemico – hanno aggiunto – può anche creare posti di lavoro e reddito, soprattutto se si prendono in considerazione le esigenze e i diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali». Ciononostante, se ne parla ancora troppo poco, mentre, nei fatti, la conversione industriale ed energetica è ormai sulla bocca di tutti. Investire in nuovi impianti, seppur sostenibili, conviene. Tra l’altro, ora come non mai. Mentre finanziare progetti di riqualificazione ambientale, no.

Uno squilibrio eccessivo e ingiustificato

Il tornaconto economico appare quindi ancora requisito essenziale per far sì che la via della sostenibilità venga percorsa. Accuse infondate? Niente affatto. Per farsi un’idea, basta guardare il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Dei 248 miliardi di fondi Ue, 70 sono stati sì destinati al comparto ambientale, ma di questi, appena 1,7 miliardi sono spettati alla salvaguardia della biodiversità e degli ecosistemi. Di contro, oltre 3 miliardi sono stati assegnati per “promuovere la produzione, la distribuzione e gli usi finali dell’idrogeno”. Risorsa ancora immatura ma senza dubbio rinnovabile e pulita (a patto che sia ‘verde’) che, tuttavia, arricchisce in parte i soliti colossi del settore energetico. Eni, ad esempio – grazie ai suoi pozzi esausti di gas – sarebbe l’unico potenziale produttore del tutt’altro che risolutivo idrogeno blu, quello derivante dagli idrocarburi fossili che, al momento, guarda caso, va per la maggiore. Nel complesso si hanno: oltre 9 miliardi al comparto energetico e meno di 2 a quello puramente ecologico. Considerate le premesse precedenti tale squilibrio appare eccessivo ed ingiustificato. È evidente che gli interessi celati dietro la transizione vadano oltre il raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali.

Pressioni per prolungare la vita delle fossili

In questo senso, una prima possibile lettura viene da una recente inchiesta secondo cui i paesi legati all’industria degli idrocarburi hanno fatto pressioni per stravolgere uno dei rapporti sul clima dell’Onu. Dall’analisi di 32.000 documenti sono emersi diversi tentativi finalizzati a proteggere interessi e status quo. Dall’Australia e l’India che hanno avuto da ridire sull’addio al carbone, all’Arabia Saudita che ha esplicitamente chiesto che le conclusioni secondo cui bisogna “eliminare gradualmente i combustibili fossili” siano cancellate. Ma qualcosa di simile, d’altronde, è già accaduto dentro i nostri confini: “tramite una capillare attività di lobbying “, il settore dei combustibili fossili è infatti riuscito a imporsi alle decisioni del governo italiano. Un settore, in Italia capeggiato da Eni e Snam, che, grazie ad una serie di numerosi incontri con i vertici ministeriali, ha incassato una cospicua parte dei fondi di ripresa. Tornando al documento Onu, secondo l’indagine, poi, non è mancato un lobbying sfrenato per far dire al rapporto quanto i Sistemi di cattura e stoccaggio del carbonio siano indispensabili. «Carbon capture and storage (CCS) –  ha ricordato Greenpeace che ha condotto l’inchiesta – è il nome dato alle tecnologie che possono catturare le emissioni di carbonio da siti industriali come le centrali elettriche per tenerle fuori dall’atmosfera o utilizzarle nei processi industriali. L’Australia, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) e il Giappone hanno tutti fatto commenti a favore di queste, ribadendo quanto andrebbero considerate strumento potenziale per ridurre le emissioni». Una soluzione questa, però, solo apparentemente risolutiva che cela inoltre rischi difficilmente prevedibili. Pur essendo l’unico strumento di riduzione diretta delle emissioni di cui disponiamo, non si hanno informazioni su possibili conseguenze a lungo termine. «Un enorme spreco di denaro e un pretesto per continuare a estrarre combustibili fossili», queste le accuse avanzate dal movimento ambientalista Friday For Future. Critiche rincarate anche dal chimico Vincenzo Balzani che ha definito la pratica come «un’azione fuori da ogni logica, tecnicamente non ancora sviluppata, caratterizzata da alti costi e forti pericoli ambientali, soprattutto se lo storage avviene in zone sismiche o con forte subsidenza». Dubbi e criticità evidenziati più di recente anche dal WWF.

Soluzione logiche e meno costose sono possibili

Insomma, il tentativo sarebbe quello di imporre una tecnologia costosa, immatura e potenzialmente dannosa allo scopo di ‘nascondere’ l’anidride carbonica generata da un’industria che avremmo già dovuto abbandonare. Di contro, ci sono le bistrattate soluzioni offerte dalla natura che, con minori spese, catturerebbero CO2 egregiamente e senza rischi. Piantare alberi, preservare mangrovie e zone umide – ha ribadito ad esempio una recente ricerca – sono soluzioni economiche ed efficaci, ma trascurate. Su quale puntare tra le due dovrebbe essere scontato. Ma si sa, specie sulla questione ambientale, seguire la logica è tutt’altro che ovvio e gli interessi monetari che spingono in altra direzione sono fortissimi.

[di Simone Valeri]

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