Da più di un mese centinaia di persone, riconducibili a dieci popoli indigeni della Colombia, resistono sotto la pioggia battente di Bogotà, con le temperature che la sera possono sfiorare i meno sette gradi. Si tratta per la maggior parte di individui appartenenti al gruppo embera katío, costretti ad abbandonare la propria casa e il proprio territorio in seguito alle ripetute violenze per via del narcotraffico e alle estrazioni illecite di oro. Sono accampati qui, nel parco Enrique Olaya Herrera, con alloggi di fortuna situati nelle vicinanze del congresso della repubblica e del palazzo presidenziale. Il 19 ottobre la Personería di Bogotá, un ufficio che si occupa dei diritti dei cittadini, ha detto che nell’accampamento ci sarebbero 400 persone, 70% delle quali donne incinte e bambini. Alcuni sostengono che un altro gruppo di 1.460 persone sarebbe stanziato in un parco in periferia. Altri, come Ati Quigua, consigliera comunale di Bogotá con il Movimento alternativo indigeno e sociale, ha scritto sui social che ci sarebbero in realtà 1300 indigeni.
Il territorio degli embera katío, che ospita circa 50.000 indigeni, comprende alcune zone molto selvagge, dove scorrono diversi fiumi e la quantità di oro presente nel sottosuolo fa gola a multinazionali e non. La regione dell’Alto Andágueda, ad esempio, è una delle più incontaminate e ha subito per cinque secoli continue estrazioni di oro, nascosto all’interno delle sue montagne. “Negli ultimi anni il controllo delle miniere ha creato uno scontro tra le multinazionali del settore, le comunità e i minatori locali. Queste battaglie hanno ignorato i diritti ancestrali sulle terre delle comunità indigene”, si legge sui giornali locali.
Basti pensare che negli anni ’80 tredicimila ettari (su un totale di cinquantamila) erano nelle mani di terzi e altri ventimila erano in attesa di concessioni. Fenomeno a cui si sono aggiunte la violenza dei gruppi armati, i bombardamenti della polizia locale e la piaga del narcotraffico. Tutti elementi che hanno contribuito inevitabilmente a spingere migliaia di profughi a scappare dalle proprie terre, abbandonandole e lasciandole in balìa di alcuni gruppi addetti al narcotraffico e all’estrazione mineraria illegale. I cartelli della droga, infatti, preferiscono inserirsi direttamente nei territori e gestire l’intera filiera, dal principio.
Ma gli indigeni non riescono ad ottenere giustizia, neppure davanti ad un tribunale. Nel 2013 un giudice ha imposto all’Agencia nacional de minería di sospendere i contratti di concessione già in corso e negare quelli richiesti da imprese minerarie non appartenenti alla comunità in questione. Dopo la sentenza, però, non è accaduto niente di concreto e il problema continua a persistere, nonostante l’anno successivo anche il tribunale superiore di Antioquia avesse stabilito la restituzione di alcuni territori strappati alle comunità indigene. In totale, negli anni, sono state più di cinquanta le ingiunzioni ai danni di entità statali, con il fine di garantire il ritorno a casa degli sfollati e l’accesso a servizi necessari quali acqua potabile, istruzione, cibo, salute, nell’arco di poco. “Ma dopo quasi tre anni sono poche le istituzioni che hanno eseguito la sentenza”, ribadiscono le autorità locali. E a chi ritorna non è concessa alcuna garanzia. Sei bambini, tornati a casa nel 2016 insieme ad altre 300 persone, sono morti per malattie come l’influenza.
Secondo Global Witness, in Colombia ci sono quattro morti ogni settimana fra chi difende il proprio territorio. L’anno scorso sono morte 227 persone, e 212 nel 2019. È il paese più pericoloso al mondo in cui battersi per l’ambiente e allo stesso tempo quello che ospita la metà delle specie animali e vegetali esistenti. Ma difendere questa biodiversità significa ancora firmare la propria condanna.
[di Gloria Ferrari]