Gli indigeni e le comunità locali di Ecuador e Perù hanno proposto un piano per proteggere l’80% della foresta pluviale amazzonica entro il 2025, l’Amazon Sacred Headwaters. Queste comunità hanno infatti fortemente criticato soluzioni come la 30 by 30 (rendere aree protette il 30% delle terre e degli oceani entro il 2030) proposte dai leader internazionali, ritenendole insufficienti quando non potenzialmente dannose. La loro proposta potrebbe permettere di proteggere l’80% dei territori amazzonici compresi tra gli Stati dell’Ecuador e del Perù. Tuttavia affinchè ciò sia possibile gli istituti finanziari internazionali dovrebbero alleviare, se non proprio eliminare, il debito internazionale di quersi Stati, che viene ripagato per la maggior parte grazie all’estrazione di petrolio e minerali e alla deforestazione.
Le comunità indigene locali ritengono che ciò che le iniziative proposte nel corso dei vari summit tenutisi nel 2021 siano insufficienti per garantire la protezione degli ecosistemi e prevenire il cambiamento climatico. In particolare il piano 30 by 30 è stato criticato in quanto potenzialmente deleterio per le comunità locali, poichè implicherebbe l’abbandono delle proprie terre e lo spostamento all’interno delle aree protette. Inoltre si tratta di una misura insufficiente per garantire una reale inversione di tendenza in termini di prevenzione e tutela della biodiversità. Iniziative simili, unite alla popolare quanto ingannevole proposta di piantare alberi per salvare il mondo, si rivelano come ingannevoli manovre di greenwashing.
La controproposta elaborata da alcune federazioni indigene amazzoniche dell’Ecuador e del Perù, in collaborazione con la Pachamama Alliance la Fondazione Pachamama, prende il nome di Amazon Sacred Headwaters e mira alla tutela dell’80% dei territori amazzonici compresi tra questi due Stati entro il 2025. Il piano prevede la protezione di 33 milioni di ettari di foresta tropicale compresa tra i bacini dei fiumi Napo, Pastaza e Marañon: fermando la deforestazione, l’estrazione mineraria e di idrocarburi in queste zone si calcola di arrivare a ridurre di 2 miliardi di tonnellate le emissioni di gas serra.
L’idea è che la gestione indigena delle foreste sia la migliore strategia per tutelare queste zone e ridurre le emissioni. Una ipotesi la cui correttezza è tra l’altro confermata dai dati. Per fare ciò è necessario ripensare l’intero modello economico, attualmente basato sull’estrazione di petrolio e minerali e sul disboscamento. La proposta prevede un ritorno ad un impresariato sostenibile, al turismo comunitario (ovvero nel quale la forma di accoglienza è gestita interamente dalle popolazioni locali) e, in generale, del recupero del concetto indigeno di benesse ed equilibrio con l’ambiente circostante, il Buen Vivir, spazzato via dalla colonizzazione spagnola.
La regione interessata costituisce il bacino con la maggiore biodiversità di tutto il pianeta ed è dimora di alcune specie a rischio estinzione. Si tratta inoltre di un’area che svolge un ruolo cruciale nel generare precipitazioni e nel mantenere in equilibrio il ciclo idrogeologico del continente. In queste zone l’azione di colossi dell’industria fossile, come le americane Chevron e Texaco, ha comportato un tale inquinamento del territorio e delle acque da rendere impossibile la coltivazione in alcune zone e causare la morte di indigeni e fauna.
I governi di Perù ed Ecuador si sono per il momento mostrati entusiasti della proposta, ma vi è un enorme scoglio da superare per garantirne la fattibilità. Entrambe gli Stati infatti hanno contratto un ingente debito estero, che viene ripagato soprattutto grazie all’estrazione delle risorse dal suolo. Secondo una stima della World Bank, nel 2020 il debito ecuadoriano ammontava a poco meno di 60 miliardi di dollari, ovvero la metà della propria economia nazionale. Senza l’alleggerimento, se non proprio l’eliminazione del debito, sarà molto difficile per questi Paesi concentrarsi su piani per lo sviluppo interno e la salvaguardia dell’ambiente.
[di Valeria Casolaro]