Le cifre stanziate per la difesa delle piattaforme Eni collocate nelle acque internazionali ammonta per il 2021 a 797 milioni di euro, ovvero il 64% del budget per le missioni militari. È quanto rivelato da un report di Greenpeace il quale, dopo aver analizzato nel dettaglio le schede di missione inviate al Parlamento, illustra come molte delle operazioni che suggeriscono in modo ingannevole interventi motivati da ragioni umanitarie abbiano in realtà come priorità la “protezione degli asset estrattivi di Eni”. Il tutto mentre la retorica della transizione ecologica la fa da padrona nel discorso politico, palesandosi ancora una volta nella sua natura ingannevole.
La spesa del ministero della Difesa per le operazioni di tutela dell’energia fossile ammonta negli ultimi quattro anni a 2,4 miliardi di euro, con un aumento notevole per il 2021 (1,2 miliardi per 40 missioni) rispetto agli anni precedenti. Tendenza che, quindi, non prevede al momento un arresto. In particolare, per le missioni Mare Scuro al largo delle coste libiche e Gabinia nel Golfo di Guinea hanno come primo obiettivo indicato la tutela degli impianti estrattivi di Eni. In altri casi, come le missioni in Iraq e nel Mediterraneo Orientale, il legame è meno immediato.
La missione in Libia, avviata nel 2015, si occupa specificamente di “sorveglianza e protezione militare alle piattaforme dislocate nelle acque internazionali antistanti le coste libiche”. Tra le sue mansioni vi è la controversa questione del supporto alla Guardia costiera libica, il cui sdegno iniziale causato nelle varie parti politiche viene prontamente messo in secondo piano dagli specifici interessi nella zona: “Impianti petroliferi, traffico mercantile, attività di pesca”. Il costo, per il solo 2021, ammonta a 96 milioni di euro.
Nelle acque del Golfo di Guinea ha luogo la missione Gabinia, riconfermata per il 2021 con un budget di 23,3 milioni di euro (il doppio dell’anno precedente). Anche qui l’obiettivo prioritario della missione è “proteggere gli asset estrattivi di Eni, operando in acque internazionali”. Si tratta del luogo “più pericoloso per il numero di attacchi e atti di pirateria alle imbarcazioni e agli equipaggi in transito”, motivo per il quale l’Italia vi agisce impiegando 400 militari, due fregate e quattro mezzi aerei, garantendo la produzione di 60 milioni di barili provenienti da Angola, Nigeria e Ghana e miliardi di metri cubi di gas ogni anno. Il tutto causando un inquinamento ambientale che sta mettendo a repentaglio interi ecosistemi, nelle acque e lungo le coste.
Missioni militari italiane con scopi analoghi si ritrovano anche in Iraq e in vari punti del Mediterraneo Orientale, zona che il ministro della Difesa Guerini ha definito “protagonista di un processo di territorializzazione mirato ad acquisire il controllo delle cospicue risorse energetiche presenti”, nel quale l’Italia vuole accaparrarsi un posto collaborando con le diverse missioni presenti. Ma i campi di azione potrebbero espandersi ulteriormente in futuro, vista l’intenzione di Guerini di valutare un “possibile contributo italiano” alla missione militare europea in Mozambico, zona scossa da sanguinosi disordini civili ma nella quale vi è la “presenza di risorse energetiche”. La stessa Eni definisce il Mozambico “uno tra i Paesi più promettenti del continente africano nel settore energetico”.
Nuovi investimenti nelle energie fossili insomma, all’indomani di una lunga lista di promesse e impegni da parte del governo per la tutela dell’ambiente e il taglio all’industria fossile che odorano di greenwashing, all’indomani della chiusura della COP26. Così sembra palesarsi una realtà nella quale Eni, da sempre nel mirino delle associazioni ambientaliste per il ruolo nella distruzione ambientale, viene in realtà tutelata dallo Stato con tutti i mezzi possibili, alle spese (letteralmente) dei cittadini. La lotta al cambiamento climatico rimane così una locuzione vuota di significato, della quale la politica si riempie la bocca senza intenzione di attivare iniziative concrete.
[di Valeria Casolaro]
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