lunedì 4 Novembre 2024

Yemen, le minacce dell’Arabia Saudita bloccano i rapporti ONU sulle violenze

In Yemen l’Onu non avrà più il suo programma volto a testimoniare le violazioni dei diritti umani commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto. Lo ha deciso un voto del 7 ottobre che, secondo molte fonti (tra cui numerose associazioni), sarebbe stato pilotato dall’Arabia Saudita. La votazione, infatti, avvenuta durante il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (HRC) con lo scopo di prolungare l’indagine indipendente sui crimini di guerra per ulteriori due anni, ha avuto esito fallimentare, con 21 no contro 18 sì e l’astensione di sette Paesi. Nel 2020 i no erano stati solo 12. Un grosso balzo, che sembra molto poco casuale.

È la prima sconfitta di una risoluzione dell’Onu, nei 15 anni di storia, sopraggiunta nonostante l’Arabia Saudita non faccia parte dell’HRC. Il paese sarebbe riuscito nel suo intento grazie all’uso di incentivi economici, minacce e pressioni su alcuni Stati. John Fisher, portavoce dell’Ong Human Rights Watch, ha detto che la bocciatura ottenuta è “una macchia sul Consiglio per i diritti umani. Votando contro questo mandato estremamente necessario, molti Stati hanno voltato le spalle alle vittime, si sono piegati alle pressioni della coalizione guidata dai sauditi e hanno messo la politica al di sopra dei principi”.

Alcuni funzionari, politici, attivisti e fonti diplomatiche, venuti in contatto in qualche modo con le trattative segrete attuate dall’Arabia Saudita hanno confermato, come riporta il Guardian, le pressioni fatte per ottenere la bocciatura definitiva della risoluzione. In particolare il Paese del Golfo avrebbe minacciato l’Indonesia, uno dei paesi musulmani più popolosi al mondo, di non permettere ai fedeli di recarsi alla Mecca se la sua votazione fosse stata a favore del rinnovo. Se l’Indonesia non avesse ceduto al ricatto, probabilmente milioni di musulmani si sarebbero riversati in protesta nelle piazze, generando un grosso caos: quello a La Mecca è considerato il pellegrinaggio più importante della religione islamica.

Per questo 64 organizzazioni (numero destinato a crescere nei prossimi giorni) tra cui figura anche Amnesty International, chiedono all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di agire in fretta per creare un nuovo meccanismo, un organismo indipendente e imparziale che “indaghi e riferisca pubblicamente sulle più gravi violazioni e abusi del diritto internazionale commessi nello Yemen, raccogliendo e preservando le prove e preparando i file per eventuali futuri procedimenti penali”.

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), il numero di vittime provocate dal conflitto potrebbe arrivare a quota 377.000 prima che il 2021 finisca. Il 40% delle persone muore per via diretta: attacchi, missili, sparatorie, mentre il restante 60% subisce effetti collaterali, tra cui fame e malattie prevenibili.

Il conflitto in Yemen è cominciato con la primavera araba del 2011, quando Ali Abdullah Saleh, lo storico presidente, ha dovuto cedere il potere al suo vice, Abdrabbuh Mansour Hadi, in seguito a delle forti pressioni. In molti pensavano che il passaggio di testimone avrebbe dovuto portare stabilità nel paese, ma così non è stato.  Da allora lo Yemen è diventato sempre più povero e il presidente Hadi ha dovuto affrontare vari attacchi da parte delle forze militari fedeli a Saleh con l’exploit del 2014. In quell’anno il movimento ribelle musulmano sciita Houthi ha occupato la provincia settentrionale di Saada e le aree limitrofe. La loro avanzata è stata così rapida da costringere Hadi all’esilio all’estero, dopo aver occupato la capitale del paese. Con l’arrivo nel 2015 dell’Arabia Saudita e di altri otto stati sostenuti dalla comunità internazionale, scesi in campo contro gli Houthi, il conflitto ha assunto una portata molto più grande e disastrosa.

[di Gloria Ferrari]

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