Nell’ultima classifica dei 15 giornalisti italiani più attivi sui social, l’unico che ha davvero a che fare con le notizie e che fa davvero il giornalista è al terzo posto: Gianluca Di Marzio, guru del calcio mercato e cane da tartufo dei segreti del pallone.
Tutti gli altri, dal primo all’ultimo, fanno felicemente e serenamente un altro mestiere. Sono influencer, opinionisti o “opinion makers”, scrittori, cacciatori di fake news, ospiti televisivi, perfino giudici di programmi televisivi. Sono, soprattutto, grandi surfisti dell’onda social, come appunto dimostrano una volta di più queste statistiche pubblicate da Primaonline, la Bibbia dei media italiani.
Dal primo per distacco, Andrea Scanzi, a tutti gli altri, è un fiorire e un florilegio di click – interazioni, per dirla bene – che ruotano attorno alla capacità di bucare il video, o lo schermo dello smartphone e del notebook, con tutto il repertorio di chi del giornalismo prende l’etichetta, per poi mettere tutt’altro nel barattolo.
La classifica delle dieci “Best perfoming”, la Top 10 del mese, è eloquente: riguarda opinioni e interventi sugli interventi più disparati, dal Green Pass ai principali temi di attualità, sui quali i nostri fantastici quindici (anzi, dieci) hanno fornito appunto opinioni, suggestioni e punti di vista.
Questo è il ruolo del giornalista all’alba avanzata del Terzo millennio? E’ questo il Frankestein uscito dal laboratorio della modernità, forgiato a misura dei social e dei like? A quanto pare, sì. A quanto pare la parola “giornalista” è sempre più incollata e sovrapposta a quello che di giornalistico ha ormai poco o nulla. Fanno ondeggiare i contatori dei social, fanno impennare le statistiche delle interazioni e fanno la gioia degli inserzionisti e dei rilevatori, ma stanno al giornalismo come Caino stava al diritto di famiglia.
I social, queste classifiche e queste dinamiche, confermano che Lavoisier ha sempre ragione: nulla si crea e nulla si distrugge, è solo il giornalismo che (forse) si trasforma. Si è trasformato in modo forse irreversibile. Era il cane da guardia della società, il faro della democrazia, così almeno veniva descritto e percepito. Produceva fatti, analizzava la realtà con strumenti oggettivi, fattuali, “facta” e domande sui quali le persone potevano riflettere e crearsi opinioni, consapevolezze, feritoie della coscienza da cui la luce poteva entrare e diffondersi. I primi 15 giornalisti italiani “social” del mese, salvo qualche eccezione di cui sopra, confermano che tutto questo non è più necessario. Non serve più, forse è addirittura obsoleto.
I fatti, le domande, l’osservazione della realtà, i ferri del mestiere che servivano prima ad un giornalista, sono stati sostituiti brutalmente da altri strumenti. Per essere “social”, bisogna essere al centro di qualcosa. Bisogna catalizzare l’attenzione, diventare centrale di interesse, produrre da sé le notizie, non limitarsi a cercarle o scavarle. Bisogna essere se stessi notizia, in buona sostanza. Se il numero di click che ci riportano queste statistiche sono attendibili, molto meno che reali, significa che apparire su un un canale della rete può produrre molto più interesse di qualsiasi, sudato e sudatissimo articolo scritto nero su bianco. Milioni di interazioni e un numero enorme di follower testimoniano che l’etichetta di “giornalisti” è perfino riduttiva. Forse è un’epoca che semplicemente cercava voci che si stagliassero sul nulla dei suoi orizzonti, e le ha trovate in chi ha saputo meglio e più velocemente degli altri diventare un guru di qualcosa, sia esso un punto di vista, una crociata ideologica, un sostegno a qualche causa friendly o semplicemente il mettere il timbro su tutto quello che passa e che succede.
Questa Top 15, questa e altre classifiche dei tempi nostri, sono la prova che il giornalista che forniva spunti, suggeriva chiavi di lettura e tirava fuori pezzi di verità in qualche complicato puzzle ha lasciato il campo – con qualche strenua e febbricitante resistenza, in direzione ostinata e contraria – al “giornalista” che in realtà ha risposte, non domande. Che non si interroga, ma risponde. Che produce notizie, non le cerca e tantomeno le approfondisce. Che ha più verità che dubbi, e che ha una parola per tutto, ha da dire su tutto e sempre, non conosce zone d’ombra, pause o (in altri tempi) dignitosi silenzi. Non ci sono più cani da guardia della democrazia e dei governati, ci sono al massimo animali da tastiera. E conta solo quello che il giornalista-personaggio scrive o dice, o meglio quello che “posta” o “twitta”, conta che ci sia e batta un colpo. Sempre e comunque, sette giorni su sette, festivi compresi. Conta che muova la classifica dei click, li titilli e li provochi incessantemente. Conta il fatturato, bellezza.
[di Salvatore Maria Righi]
Travaglio è scrittore e giornalista.
Colgo l’occasione per augurarvi buone feste.
E anche tuttologo in tv.
continuerò a sostenervi, questo è il giornalismo che cercavo. Grazie di cuore