Mai come oggi abbiamo sentito il bisogno di trasformare la realtà in racconto, di dare uno spessore al presente. Sentire il tempo, come hanno suggerito in varie epoche Marco Aurelio, Schopenhauer, Max Planck, Bergson.
Non si può ipotecare il presente. Il presente è il tempo in cui cogliamo il significato, anche se non ancora il senso; il divenire, anche se non ancora la trasformazione. Immaginiamo di guardare un film: è vero che attendiamo come andrà a finire la storia ma questo ci può anche interessare poco per il momento. Intanto osserviamo le tecniche in opera, le voci, gli sguardi, le azioni, l’immaginario che prende forma, l’emozione che cerca una sua veste, la cronaca di una vita, di più vite che si progettano, intrecciano e scorrono.
Aveva ragione il fisico Planck, noi facciamo parte dell’enigma che stiamo cercando di risolvere, noi senza accorgercene siamo dentro quel film che ci appare lontano da noi, dalla nostra esperienza. Ma il presente dilatato di quella storia che stiamo seguendo ci attrae e ci sottrae a ciò che davvero accade. Marco Aurelio, ricordava Borges, “afferma che qualunque lasso di tempo – un secolo, un anno, una sola notte, forse l’inafferrabile presente – contiene integralmente la storia… Chi ha visto il presente ha visto tutte le cose: quelle che avvennero nell’insondabile passato, quelle che accadranno nel futuro.” (Storia dell’eternità, Adelphi 1997, pp. 85-6).
Parlava così il perspicace Ulisse ai Feaci: “C’è l’ora dei lunghi racconti, e c’è l’ora del sonno:/ ma se ancora, Alcinoo potente, ti piace ascoltare, io non posso/ negarti questo; dirò altre pene più tristi,/ lo strazio dei miei compagni, che più tardi perirono…” (Odissea, XI, 379-81). E poi, finalmente giunto ad Itaca, grazie appunto ai Feaci, “navigatori gloriosi”, Ulisse viene riconosciuto dal figlio Telemaco che, “stretto al suo nobile padre, singhiozzava piangendo. A entrambi nacque dentro bisogno di pianto:/ piangevano forte, più fitto che uccelli, più che aquile/ marine o unghiuti avvoltoi, quando i piccoli/ ruban loro i villani…” (Odissea, XVI, 215-20). Anche un intero poema, come la vita di una persona, come il destino di un popolo o di un mondo, ha il suo palesarsi, il suo riconoscimento, la sua rivelazione: tappa determinante nella tragedia greca, ma indispensabile anche nelle vicende personali e in quelle storiche.
Il presente, dunque, tempo della gioia e delle lacrime, tempo sottratto al flusso puramente cronologico, è quella circostanza in cui non ci può essere che verità, constatazione, ma anche senso della relazione con qualcos’altro già accaduto. “Il futuro delle immagini, cioè degli oggetti che mi circondano– annotava Bergson in Materia e memoria – dovrà essere contenuto nel loro presente, e non aggiungervi niente di nuovo”. Ma è anche vero che la “percezione presente va sempre a cercare, in fondo alla memoria, il ricordo della percezione anteriore che le assomiglia: il sentimento del già visto…”. Quindi il presente è destinato a scorrere, a moltiplicarsi in presenti successivi, a creare somiglianze e differenze, a far immaginare un divenire.
Nel tempo attuale si moltiplica il senso di ansia. Esso, a mio parere, non deriva però dall’incertezza del futuro, dalla proiezione che i meno giovani di noi fanno sul destino dei più giovani, temendo che sia oscuro, negativo.
Il vero furto non riguarda il futuro, non riguarda la speranza. Il vero furto che si sta minacciando è appunto la perdita del presente, è la sottrazione di un qualunque divenire, cioè di un qualunque, o di un determinato, possibile. E come avviene tale frustrazione? Attraverso il controllo, attraverso il timore indotto che qualsiasi decisione si prenda, qualsiasi movimento si compia, essi verranno schedati, bloccati in una dimensione atemporale, come sentenze definitive che ci riguardano inesorabilmente. Le schedature non permettono gradi successivi di giudizio: le schedature, in sé, sono risolutive, incontrovertibili. Inoltre, la volontà del controllo rivela tristemente la scarsa o nulla fiducia negli altri e nei tempi a venire.
“La nostra organizzazione sta da molti anni preparando il più grande centro di documentazione che sia mai stato progettato, uno schedario che raccolga e ordini tutto quello che si sa d’ogni persona ed animale e cosa, in vista di un inventario generale…”. Con il pretesto della probabile fine del mondo, o di questo nostro mondo terrestre, nel ‘nobile’ sforzo di lasciare una memoria globale si procede a “un processo di riduzione all’essenziale, condensazione, miniaturizzazione, che non sappiamo ancora a che punto s’arresterà”. Ma in questo materiale che viene consegnato al nuovo Direttore, grazie a una ‘lieve’ manipolazione, “vi sono disseminati giudizi, reticenze, anche menzogne… Mi ascolti: la menzogna è la vera informazione che noi abbiamo da trasmettere”. Così scriveva profeticamente Italo Calvino, nella “cosmicomica” intitolata La memoria del mondo, 1968.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]