«Se le altre parti che partecipano ai colloqui di Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare del 2015 sono determinate a rimuovere le sanzioni, raggiungeremo sicuramente un buon accordo». Queste sono le parole rilasciate dal presidente iraniano Ebrahim Raisi lo scorso 11 dicembre. Due giorni prima erano infatti ripartiti i colloqui a Vienna tra l’Iran e i paesi segnatari dell’accordo sul nucleare del 2015 (i 5 membri permanenti del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Russia, Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito più Germania e Unione Europea). A seguito delle dichiarazioni dei vari ministri degli esteri europei presenti a Vienna, appare però oramai improbabile si possa giungere ad una soluzione. Considerando che da parte di Washington non traspare la ben che minima volontà di volere fare il primo passo verso la rimozione delle sanzioni.
Con la firma dell’accordo sul nucleare (noto anche come Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA), l’Iran si impegnava a rispettare dei limiti relativi all’arricchimento dell’uranio che le avrebbero garantito la produzione di energia atomica, ma non quella di armi. Il rispetto di tali limiti avrebbe garantito all’Iran la rimozione delle sanzioni economiche da parte di Stati Uniti, Unione europea e delle Nazioni Unite. Per monitorare poi che tali accordi venissero rispettati, Teheran aveva accettato di ricevere ispezioni regolari da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Nonostante questo, l’accordo era saltato nel maggio 2018, a seguito della decisione unilaterale dell’allora presidente americano Donald Trump di reintrodurre le sanzioni, nonostante Yukiya Amano (al tempo direttore dell’AIEA) avesse dichiarato in marzo che l’Iran stava rispettando tutti i limiti degli accordi.
La decisione da parte di Washington di interrompere l’accordo sul nucleare e reintrodurre sanzioni venne giustificata (con l’appoggio di Israele), dal fatto che l’Iran avrebbe continuato a lavorare ad un progetto segreto, AMAD, per la costruzione di armi atomiche. Questa giustificazione apparve, da subito, come un pretesto per avvalorare quella che altro non era che una scelta politica.
Considerando che nel 2015 la stessa AIEA aveva dichiarato che: “una serie di attività relative allo sviluppo di un ordigno nucleare era stata condotta in Iran prima della fine del 2003, ma che queste attività non erano andate oltre gli studi scientifici e l’acquisizione di determinate competenze e capacità tecniche pertinenti. L’Agenzia non ha indicazioni credibili di attività in Iran rilevanti per lo sviluppo di un ordigno nucleare dopo il 2009”.
Da dove nascono queste tensioni?
L’Iran, negli ultimi anni, ha assunto un ruolo di spessore nella regione medio orientale come potenza militare e a livello di influenza politica. Questo ruolo ha creato diversi contrasti con quelli che sono appunto i due principali alleati di Washington in Medio Oriente, Israele e Arabia Saudita.
L’Iran non ha mai nascosto il proprio supporto, economico e militare, a vari gruppi armati nella regione come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano (entrambi inseriti nelle liste delle organizzazioni terroristiche). Un’altra causa di forti tensioni è dovuta al supporto militare ed economico da parte di Teheran al regime di Bashar al-Assad in Siria. Per Israele, e di conseguenza gli Stati Uniti, la possibilità che l’Iran potesse ottenere come ricompensa basi militari permanenti in Siria rappresentava una considerevole minaccia. Infatti, come ritorsione, Israele negli ultimi anni ha compiuto diversi raid aerei in Siria contro obiettivi iraniani.
Anche nei confronti dell’Arabia Saudita, l’Iran ha utilizzato lo stesso modus operandi utilizzato contro Israele, supportando i ribelli Houthi in Yemen. Dal 2015, infatti, va avanti una guerra civile tra due fazioni, quella appunto degli Houthi e quella (sostenuta da Riyad) leale al governo di Abd Rabbuh Mansur Hadi. Inoltre, Teheran sarebbe responsabile di attacchi con droni alle installazioni petrolifere saudite, in particolare va ricordato l’attacco occorso nel settembre del 2019 alle raffinerie della compagnia petrolifera saudita Aramco ad Abqaiq e Khurais. L’attacco rivendicato inizialmente dagli Houthi, ridusse del 50% la produzione di petrolio dell’Arabia Saudita (circa il 5% della produzione mondiale di petrolio), causando una certa destabilizzazione dei mercati finanziari globali.
Dramatic new video of #AramcoAttack in #SaudiArabia on @60Minutes #Iran #OOTT pic.twitter.com/Ih1H5RP58o
— Jason Brodsky (@JasonMBrodsky) September 30, 2019
Un’altra significativa causa di tensioni tra Stati Uniti e Iran è l’Iraq. A seguito dell’invasione americana nel 2003, l’Iran si è trovato a fronteggiare, o quantomeno a considerare, la possibilità di poter venir invaso, poichè in quel momento, era “circondato” da truppe statunitensi sia in Afghanistan che in Iraq. Per limitare l’influenza americana, il regime di Teheran ha sviluppato programmi per finanziare e formare milizie armate in territorio iracheno. Responsabile di questi programmi era appunto il generale Qasem Soleimani (comandante delle unità speciali delle Forze della Rivoluzione), che venne ucciso da un drone americano nel gennaio del 2020 all’esterno dell’aeroporto di Baghdad, in Iraq. Altra decisione presa unilateralmente da parte di Washington, che avrebbe potuto avere conseguenze devastanti in una delle regioni più instabili del pianeta.
AhadTV have released CCTV footage from #Baghdad International Airport of the #US assassination strike against #Iran’s #IRGC leader Qasem Soleimani and #Iraq’s #PMF leader and others pic.twitter.com/Bu09MV0D7T
— Aurora Intel (@AuroraIntel) January 3, 2020
Queste operazioni messe in piedi dal regime iraniano hanno un duplice scopo, il primo propagandistico per rinforzare l’influenza nella regione contro i nemici storici Stati Uniti e Israele. Mentre il secondo è quello di distogliere l’attenzione delle popolazioni dai problemi interni (crisi economica) e al contempo di stringere rapporti commerciali non ufficiali, per evitare le sanzioni.
Ragioni economiche
Le tensioni tra Stati Uniti e Iran non sono esclusivamente di natura politica, anche la parte economica ricopre un ruolo centrale. L’Iran detiene circa il 13,1% delle riserve petrolifere conosciute a livello mondiale, e come la storia insegna, è più probabile entrare a far parte della lista dei “cattivi” per quei paesi che avendo tali risorse decidono di nazionalizzarle (vedi il Venezuela che detiene il 25% di tali riserve) piuttosto che renderle disponibili alle multinazionali dell’energia. Negli anni dello scià Mohammad Reza Pahlavi (che governò il paese dal 1941 al 1979), l’Iran era il principale alleato degli Stati Uniti nella regione e gli affari tra i due paesi erano fiorenti (petrolio in cambio di armi). Proprio in quegli anni, ad esempio, l’Iran inizio a sviluppare la costruzione di centrali nucleari grazie al supporto americano. Tutto venne poi interrotto dalla rivoluzione islamica del 1979, e la presa del potere da parte dell’ayatollah Khomeini. La rivoluzione islamica porto anche alla nazionalizzazione dei pozzi petroliferi e solo nel 1998, alcune multinazionali del petrolio poterono poi tornare ad operare in Iran, seppur con un ruolo decisamente marginale.
Come se non bastasse, anche la posizione geografica dell’Iran ha comportato numerose tensioni di fondo economico: le minacce di chiudere lo stretto di Hormuz nel Golfo Persico, ad esempio. Da qui, infatti, passa circa il 20% della produzione mondiale di greggio ed è considerato una delle vie di navigazione più strategiche al mondo.
Conclusioni
Ad oggi le sanzioni economiche, come spesso succede, hanno avuto ripercussioni principalmente sulla popolazione civile. Il declino dell’economia ha causato negli anni numerose ondate di protesta come nel novembre del 2019, quando un incremento del 300% del prezzo della benzina diede il via a manifestazioni di massa su scala nazionale che vennero poi represse brutalmente dal regime. Secondo un report di Amnesty International, almeno 324 persone vennero uccise dalle forze di sicurezza iraniane. Mentre secondo altre fonti (non confermate), i morti sarebbero oltre 1.500.
Poiché le sanzioni hanno fallito e i vari tentativi da parte di qualcuno di “esportare la democrazia” altro non erano che guerre mascherate, sarebbe utile cercare un dialogo con il regime iraniano magari ripartendo proprio dall’accordo sul nucleare, per ottenere concessioni da parte di Teheran anche su diritti umani e libertà individuali. L’Iran è ben lontano dall’essere una democrazia e tante sono state negli anni le violazioni e i crimini commessi dal regime. Ma crimini e violazioni dei diritti umani sono stati commessi da tanti altri paesi nella regione, basti pensare all’Arabia Saudita, paese con cui Stati Uniti e altri nazioni europee (o politici, vedi Renzi) non hanno remore a fare affari, nonostante la consapevolezza che il principe che la governa, Mohammed bin Salman, sia direttamente responsabile dell’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista.
[Enrico Phelipon]