La questione è così seria che l’Alto Commissariato dell’Onu ha spedito una delegazione in Veneto, per tastare con mano la situazione e fare chiarezza sulle cause dell’inquinamento diffuso. Una missione vera e propria, svoltasi tra il 30 novembre e il 13 dicembre, finalizzata a comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Dopotutto, poche settimane fa, il ricercatore del CNR che ha seguito la questione aveva definito senza mezzi termini la situazione veneta: «Il più grande inquinamento Pfas d’Europa per importanza ed estensione. Probabilmente il più grande anche del mondo se escludiamo la Cina». Stiamo parlando dell’inquinamento delle acque da parte di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas). Una vicenda di gravissimo allarme per l’ambiente e la salute umana, che da tempo scuote la popolazione veneta e sarebbe alla base di patologie molto pericolose . Un quadro che dovrebbe preoccupare anche i media ed occupare le prime pagine, eppure nessuno o quasi ne parla. Un muro di omertà che ha coinvolto la stessa Regione Veneto, accusata direttamente dall’emissario Onu Marcos Orellana: «Quando nel 2013 le autorità regionali hanno saputo della contaminazione provocata da Pfas – ha denunciato Orellana dopo aver depositato la relazione – hanno iniziato ad installare filtri a carbone attivo per garantire la salubrità dell’acqua potabile, ma in quel periodo le autorità regionali avrebbero dovuto informare la popolazione, distribuire informazioni delle implicazioni sulla salute in relazione a queste contaminazioni. Tutto ciò non è stato fatto».
Sebbene non sia ancora una posizione ufficiale, si può ritenere, già da ora, che quantomeno il diritto all’informazione sia stato tradito. Una prima risposta all’accorato appello del “Comitato Mamme No Pfas”, il fronte più attivo da quando la questione è esplosa. Secondo le donne, sarebbero però almeno altri due i diritti umani violati: quello alla salute e quello al rimedio effettivo. Per appurare la violazione, l’esperto Onu ha incontrato autorità ed enti locali, regionali e nazionali, ma anche chi ha vissuto e vive ogni giorno il dramma di abitare in un territorio oggetto di uno dei più gravi casi di inquinamento a livello internazionale. E ancor più grave – come ha aggiunto il delegato delle Nazioni Unite – la mancata divulgazione delle informazioni alla popolazione. «Nel 2016-2017, nell’ambito di un piano di monitoraggio della salute – ha spiegato – alcune persone hanno ricevuto delle lettere nelle quali si invitavano a sottoporre i bambini a delle analisi. Ed è soltanto in quel periodo che hanno saputo di queste contaminazioni». Quindi, con un ritardo di almeno 3 anni. Almeno. Già nel 2006, infatti – secondo un rapporto di Greenpeace – l’Agenzia regionale del Veneto avrebbe potuto iniziare le operazioni di bonifica Pfas nella zona di Trissino.
Se poi tiriamo in ballo la salute pubblica, il tema si fa ancor più scottante. Nel 2015, l’azienda sanitaria locale vicentina avvia un primo screening su 270 persone dal quale emergono i primi casi che superano di 35 volte il limite di 8ng/l di Pfas nel sangue. Nel 2019, invece, erano già almeno 350 mila le persone contaminate a causa dell’inquinamento dell’acqua di falda tra Vicenza, Verona e Padova. Un triangolo rosso, come è stato definito, che ha già ampiamente impattato sulla vita delle persone residenti entro il suo perimetro. L’acronimo Pfas, che sta anche per acidi perfluoroacrilici, indica un gruppo di sostanze chimiche di stampo industriale. La classe più diffusa, la Pfoa (acidi perfluoroottanoici), nel 2009, è stata dichiarata “sostanza inquinante resistente” dalla Convenzione di Stoccolma e, nel 2017, dalla Commissione europea su indicazione dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche, ne sono stati accertati i rischi inaccettabili per l’ambiente e la salute umana. Le sostanze in questione, oltre ad essere estremamente persistenti, infatti, alterano il sistema ormonale portando a diverse patologie, anche letali. Di particolare rilievo, l’aumentato rischio di malattie tiroidee, tumore a rene e testicolo (+30%), di cardiopatia ischemica (+21%), morbo di Alzheimer (+14%) e malattie correlate al diabete (+25%).
L’allarme maggiore è scattato poi quando, nel 2017, sono stati pubblicati i risultati di un biomonitoraggio sulla popolazione nata tra il 1956 e il 2002 e residente nella zona rossa. La conclusione è stata che i giovani al di sotto dei 15 anni sono particolarmente vulnerabili agli effetti delle sostanze tossiche incriminate. Da qui la nascita del “Comitato Mamme No Pfas” che oggi conta centinaia di aderenti. Anche grazie alla pressione da loro esercitata, la vicenda si è fatta via via più trasparente. Una vicenda che a quanto pare ha origini lontane, riconducibili agli anni ’60 con le attività della società di alta moda Rimar e che culmina nel 2013 con l’attribuzione del 97% dell’inquinamento da Pfas della zona alla Miteni Spa. Ora che sono state coinvolte le Nazioni Unite, con la speranza che sempre più provvedimenti vengano adottati, la questione diventerà presto di rilievo internazionale.
[di Simone Valeri]