martedì 5 Novembre 2024

Il microchip anti-Covid sperimentato in Svezia è una mossa commerciale

Tra le varie leggende metropolitane che sono circolate attorno ai vaccini contro il coronavirus, una delle più pittoresche è certamente quella che suggeriva che i medicamenti venissero sfruttati da Bill Gates per introdurre dei microchip nei corpi dei pazienti. A distanza di qualche mese da che quella voce aveva preso piede, fa dunque impressione lo scoprire che un’azienda svedese, Epicenter, ha ben pensato di cogliere l’attimo per reclamizzare un impianto sottocutaneo capace di custodire i dati della certificazione verde europea.

La trovata commerciale della start-up di Stoccolma ha colpito in pieno tutti gli obiettivi di una campagna marketing di successo, almeno a giudicare dall’impareggiabile valore espositivo che le ha garantito la notizia, tuttavia lo strumento non ha tanto impressionato per la sua innovazione tecnica – la quale non è dissimile da qualsiasi altro apparecchio “contactless” -, quanto per il sottotesto distopico che deriva dal fondere le macchine di raccolta dati alla struttura biologica di un essere umano.

Superato l’elemento quasi provocatorio che ha catalizzato l’attenzione, il panorama prospettato da questa campagna commerciale è però tutto meno che preoccupante, anzi è quasi banale. La moda del “chipparsi”, una moda puramente antropopoietica, ha preso piede in quel della Svezia e in alcune aziende tecnologiche statunitensi già a partire dal 2014, ma le funzionalità dell’innesto si limitano a quelle che normalmente vengono espletate dalle normali tessere magnetiche o dagli smartphone. Non una vera e propria rivoluzione, dunque, piuttosto una scelta estetica di un ramo derivante dalla sottocultura della modificazione corporea, una scelta estetica lanciata dal tatuatore Jowan Österlund che sottolinea un’appartenenza ideologica condivisibile da tutti coloro che ambiscono al successo del transumanesimo.

Nulla di preoccupante, dunque, almeno fintanto che la cosa rimarrà com’è allo stato odierno, ovvero finché l’intervento sarà eseguito su base volontaria da parte di un pubblico ristretto e dalla posizione sociale forte. Lo scenario distopico delle grandi aziende che marchiano i propri dipendenti e li monitorano trasformandoli letteralmente in cyborg è peraltro estremamente remoto: diversi Stati degli USA hanno già introdotto regole che vietano a priori una simile deriva, mentre la legislazione europea è tutelata da numerosissime norme che renderebbero il tutto inutile, ancor prima che inattuabile.

A ben vedere, la questione dei microchip sottocutanei ha origine nell’ormai remoto 1998, anno in cui lo scienziato Kevin Warwick ha voluto sperimentare letteralmente sulla propria pelle le possibilità tecniche di un impianto, e da allora diverse aziende hanno cercato di farne a più riprese un vero e proprio status symbol, fallendo ogni volta. Certo, rimane sempre la fantasia che vedrebbe un perverso regime autoritario imporre ai propri cittadini l’intervento chirurgico, tuttavia, in un mondo in cui 6,3 miliardi di persone sono dotate di smartphone, un simile approccio sarebbe quanto mai poco pratico, soprattutto perché non esistono al giorno d’oggi strumentazioni geolocalizzanti tanto piccole ed economiche da poter offrire un’alternativa più conveniente di quanto non sia già a disposizione delle dittature.

Se poi siete tra coloro che vorrebbero davvero un chip sottocutaneo, non possiamo che rimarcare che gli studi clinici sulle conseguenze di un simile intervento sono pochi e contraddittori, ma soprattutto che la tecnologia evolva a un ritmo sempre più marcato e non è improbabile che gli innesti debbano essere sostituiti a distanza di pochi anni da che lì si è acquistati. Uno sforzo forse eccessivo, se lo scopo finale è quello di trasformare il palmo della propria mano in una tessera dei mezzi pubblici.

[di Walter Ferri]

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