Il principio antropologico di base è sempre valido: l’utensile è il prolungamento del braccio, il potere di intervento sul mondo circostante deriva dalla capacità di andare oltre se stessi, oltre i limiti imposti dalla corporeità e dalla fisica. Sotto questo aspetto anche il pensiero è un utensile che convoca orizzonti lontani, possibilità a venire oppure decisioni immediate, interventi meditati o azioni da eseguire quasi senza riflettere. “La rete dei pensieri umani guida azioni e comportamenti e può incatenarci al nostro passato o favorire un cambiamento culturale emergente” (D.S. Bassett).
Il sognare o l’azionare in sincrono pedale della frizione e innesto della marcia discendono ambedue da un lavoro mentale.
L’utensile poi, che raccoglie in sé le capacità del braccio che impugna qualcosa e del pensiero che lo dirige, è il linguaggio: strumento di pensiero e di azione, di rappresentazione e di relazione con altri soggetti. Maurice Merleau-Ponty, da filosofo, ha parlato dello spazio come luogo della percezione dell’altro e delle relazioni interpersonali, determinante per l’esistenza della vita interiore del soggetto.
Potrebbe sembrare del tutto inutile, o quanto meno superfluo, cercare parole nuove sui media, una volta che li definiamo come utensili, come strumenti disponibili a veicolare decisioni e concetti, e a favorire i contatti. Ma i media sono diventati qualcos’altro, spazi in cui l’utensile, la mente e il linguaggio si sono fusi rendendosi indipendenti dalle volontà e dalle attese, dove mittente e destinatario fanno fatica a convivere se escono dagli schemi prestabiliti, dalle regole imposte.
Ma è bene fare un passo indietro e risalire alla teoria dell’origine del linguaggio che, insieme alla spiegazione biologica, ha bisogno di una spiagazione sociale. Questa vede il linguaggio formarsi a partire dalla chiacchiera, dal pettegolezzo, in una linea quasi comica che va dallo spidocchiamento o, se preferite, dalla pulizia comunitaria della pelle di scimmie antropomorfe, alle chiacchiere del caffè e della bottega del barbiere, su cui Carlo Goldoni ha edificato brillanti e incisive pagine teatrali: “- Venite qui, sedete, beviamo il caffè…A che giuoco giuochiamo, signor Eugenio? Si prende spasso dei fatti miei? – Avete saputo della ballerina? – Come l’avete saputo, caro amico? – Eh, io so tutto. Sono informato di tutto. So quando vi va, quando esce. So quel che spende, quel che mangia, so tutto…” (La bottega del caffè).
Dichiarazioni, queste, da uomini, non diverse da quelle delle donne che sparlano del vicinato… Babula skazala, “nonnina diceva” significa in russo, “corre voce che…”. Sono dunque le chiacchiere della vita quotidiana a fare andare avanti il mondo, più che le perle di saggezza, e questo lo hanno imparato da subito i media, trasformando le dicerie in notizie. Goldoni nasce negli anni di fondazione del trisettimanale britannico di cronaca leggera, “Tatler” (Il pettegolo), e il gossip ha da sempre le sue forme sceniche, come ora avviene nelle soap operas; esso è una sorta di “voyeurismo verbale” (S. Benvenuto) potenziato all’ennesimo grado negli attuali social.
In una situazione del genere come si fa ad esigere oggettività e freddezza nella comunicazione? La diceria e il pettegolezzo si sono amplificate, irradiate nelle teorie del complotto. È fuorviante parlare di correttezza nell’informazione quando le condizioni di esistenza stessa del linguaggio lo vedono immerso nell’equivoco, nell’ambiguità, nel fraintendimento, nell’insinuazione. Il richiamo alla pura razionalità nel linguaggio sa di Illuminismo mal digerito. E il marketing non basa forse gran parte della sua efficacia nel pilotare la customer satisfaction? La psicologia infantile ha studiato come, verso i quattro-cinque anni, ci si comincia a rendere conto che gli altri possono vedere le stesse cose in un altro modo e che si può perfino adottare il loro punto di vista. Pluralità dei modi che l’educazione può esaltare o comprimere, valorizzare o strumentalizzare. Il marketing conosce benissimo il potere che il bambino, ancora in età prescolare, ha nell’orientare i consumi, nel trasformare il suo gesto ammiccante con l’acquisto del prodotto dolce da banco.
Il problema non sta tanto nel tipo di ordine economico quanto piuttosto nella gamma di stili e finalità espressive e comunicative, nella varietà delle intenzioni, e se queste sono esplicite o quanto meno ricostruibili. Gli spot pubblicitari erano un tempo annunziati in televisione da un richiamo in sovraimpressione o da un innalzamento di un paio di decibel del livello sonoro. Altrettanto è richiesta una marcatura del messaggio promozionale, come per i titoli di testa di un film o la sigla di un programma. Ma è inevitabile che il medium televisivo produca commistione di generi, così come è inevitabile, è connaturato che i social producano intolleranza e odio. Ci siamo dimenticati del savoir faire nel traffico automobilistico?
Ogni medium ha la sua psicologia, la sua conformità di specie. L’etica non consiste in una algida e ipocrita intelligenza puritana che ci faccia scegliere in base a pregiudizi che devono rimanere occultati. Ecco allora gli intellettuali razionalisti che pontificano contro la disinformazione, che mettono in ridicolo chi teme il Nuovo ordine mondiale, altri che continuano a sostenere che ogni atteggiamento ecologico è velleitario, altri ancora che puntano sul catastrofismo.
Ricordo ai tempi della New Age di trent’anni fa, i detrattori, come se nuovi atteggiamenti di pensiero (e conseguentemente di marketing) comportassero di per sé minacce per il mondo. Ci dovremmo allora stupire se nel 2013 il World Economic Forum individuava come tema cruciale e pericoloso, insieme al terrorismo, “la viralità legata a informazioni infondate o false”? Ma il problema, diciamolo una volta per tutte, non è eliminarle, il che è del tutto impossibile, ma saperle riconoscere, insegnare a svelarle, il che però non a tutti conviene. Molto è spiegato dall’uso figurato delle parole. Un capitolo a parte meriterebbe, ad esempio, l’introduzione del termine ‘virus’ per una minaccia legata al funzionamento dei computer o dei sistemi esperti. Una metafora che spiega quanto una diceria o una verità infondata possano creare danni analoghi.
Ha scritto Kapferer nel suo libro Le voci che corrono (Longanesi, 1987): “Per credere a un’informazione riportata da altri, qualunque sia il nostro desiderio di credervi, occorre che sembri plausibile a quanti l’ascoltano. Gli abituali commenti sulle voci infondate non mancano di stigmatizzare severamente chi ha creduto l’incredibile. In realtà le voci possono svilupparsi perché vengono percepite come verosimili. Ogni voce è necessariamente realistica all’interno del gruppo in cui circola” (p. 70). Aveva forse ragione McLuhan quando sosteneva che i paesi europei fanno fatica a muoversi sulla base delle informazioni, come se avessero temuto l’invenzione della stampa e la diffusione del sapere. Si tratta in effetti di una rivoluzione culturale che viene da lontano, dal formarsi della città come nuovo luogo sociale, e dal nuovo ordine economico che metteva a disposizione i prodotti manifatturieri mediante il loro trasporto materiale e la loro circolazione simbolica. Siamo nell’undicesimo secolo, c’è una lingua comune, il latino, come premessa essenziale all’esplorazione immaginativa di se stessi e dell’universo. Una volta riconosciuta la molteplicità degli affetti e dei desideri, l’individuo scopre di avere un ruolo particolare nella società, di non farsi riconoscere semplicemente nell’obbedienza, nell’anonimato.
Siamo in un lontano preannuncio umanista, appannaggio allora di pochissimi. “Nessuna predica mi sembra più utile di quella che rivela un uomo a se stesso, e ricolloca nel suo essere più profondo, cioè nella sua mente, ciò che è stato proiettato fuori; e che in modo convincente lo pone, come in un ritratto, di fronte ai suoi stessi occhi. Chiunque ha il compito, per prima cosa, di imparare su se stesso, e dopo insegnare con profitto agli altri, ciò che l’esperienza delle sue lotte interiori gli ha insegnato”: Guiberto di Nogent (In Genesim, 1110 circa). In un nuovo alternarsi di interiorità ed esteriorità, in effetti, penso si potrà giocare un prossimo futuro: rimodellando quelle “estensioni della coscienza dell’uomo”, che erano i media secondo McLuhan. Conservando, come lui suggeriva, il nostro sangue freddo, cioè una nostra autonomia, ma anche immaginando originali forme di alleanza. Ad esempio, si potrebbe partire dall’affermazione paradossale di Jean Baudrillard: “Perché non dovrebbero esserci tanti mondi reali quanti sono i mondi immaginari? Perché un solo mondo reale, perché una simile eccezione? A dire il vero, il mondo reale, tra tutti gli altri possibili, è impensabile, tranne che come superstizione pericolosa…” (Il delitto perfetto, Raffaello Cortina, 1996). In effetti, noi semiologi abbiamo chiamato ‘mondo possibile’ quello generato da una qualsiasi forma narrativa, ammettendo che realtà e romanzo si superino di continuo scambievolmente.
Pertanto, sarebbe necessario che qualsiasi media venisse sempre preso, per poterlo tollerare, con un margine di irrealtà, di infedeltà. Come uno specchio sfuocato. Come qualcosa che contiene un germe del (suo) fallimento. Da cui noi siamo in grado, sempre, in qualche modo, di venirne fuori.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]