Che la Fininvest di Silvio Berlusconi, una delle più potenti holding italiane che ha detenuto negli ultimi decenni partecipazioni nei più svariati settori (televisivo, radiofonico, editoriale, assicurativo e bancario, cinematografico) abbia finanziato l’associazione mafiosa Cosa Nostra tra la prima metà degli anni Settanta e la prima metà dei Novanta è ormai storia: lo ha ribadito lo scorso ottobre la Cassazione, che ha chiuso il processo intentato dalla società di Berlusconi contro la casa editrice e gli autori del libro “Colletti Sporchi”, Tescaroli (magistrato) e Pinotti (giornalista), che avevano trattato il tema dei rapporti torbidi tra Cosa Nostra e la Fininvest. Tale aspetto era già stato evidenziato in un’altra importante sentenza: quella che, nel 2014, aveva reso definitiva la condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa per il braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, reo di avere svolto un’opera di intermediazione tra Berlusconi e la mafia che determinò il “raggiungimento di un accordo che prevedeva la corresponsione da parte di Silvio Berlusconi di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione da lui accordata con Cosa Nostra palermitana”. Tale patto sarebbe stato stipulato nel ‘74, quando il Cavaliere incontrò a Milano il capo di Cosa Nostra in persona Stefano Bontate (poi “rovesciato” dai corleonesi dopo la seconda guerra di mafia, all’inizio degli anni Ottanta) e avrebbe avuto effetto almeno fino al ‘92, dal momento che “l’avvento dei corleonesi di Totò Riina non aveva inciso sulla causa illecita del patto” e che Dell’Utri “aveva provveduto con continuità a effettuare per conto di Berlusconi il versamento delle somme concordate a Cosa Nostra e non aveva in alcun modo contestato le nuove richieste avanzate da Totò Riina”.
Insomma, la holding che inglobava (e ancora ingloba) un numero estremamente significativo di società editoriali, testate giornalistiche e reti televisive italiane, tra cui la Mondadori, il Giornale e i tre network nazionali Canale 5, Italia 1 e Rete 4, versò 250 milioni di vecchie lire ogni sei mesi ai vertici di Cosa Nostra nel medesimo periodo in cui questi ultimi pianificavano ed eseguivano l’assassinio di magistrati, politici, poliziotti, carabinieri e sacerdoti. Non possediamo elementi che provino un’azione di influenza diretta da parte della mafia sulla linea editoriale degli organi di stampa e delle emittenti berlusconiane, ma è piuttosto fisiologico ipotizzare una convergenza di interessi tra gli ambienti criminali palermitani e l’azione politica del Cavaliere in merito a determinate strategie e scelte editoriali. Basti pensare all’attacco sferrato negli anni da tali organi televisivi e di stampa contro una lunga serie di magistrati impegnati in indagini sulle connessioni tra politica e malaffare, contro avversari politici (pochi, a dir la verità) che hanno evidenziato le opacità biografiche e aziendali del Cavaliere impugnando la bandiera della legalità, nonché contro giornalisti e presentatori televisivi che denunciarono all’opinione pubblica i torbidi intrecci tra Forza Italia e ambienti criminali, in particolare in riferimento alle ombre sulle origini finanziarie della Fininvest, e il conflitto d’interessi di Berlusconi (vedi il famigerato “Editto bulgaro”, strumento con il quale il Cavaliere si assicurò che Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi venissero accompagnati alla porta dai dirigenti di “Mamma Rai”).
La “guerra psicologica”
Eppure, il rapporto tra poteri occulti, antistato e media parte da molto più lontano. A questo proposito, è essenziale portare indietro le lancette al maggio 1965, quando all’Hotel Parco dei Principi di Roma andò in scena lo storico convegno dell’Istituto Alberto Pollio sulla “Guerra rivoluzionaria”, considerato di fatto l’atto fondativo della ‘strategia della tensione’, opera eversiva condotta da diverse entità (servizi segreti italiani e americani, massoneria deviata, organizzazioni paramilitari costituite clandestinamente, eversione nera), la cui azione era accomunata da un obiettivo di fondo: impedire al PCI di fare il suo ingresso al Governo del Paese. In tale occasione venne lanciato il manifesto programmatico della lotta al comunismo fondato sulla cooperazione tra diverse componenti della società civile. Tra i partecipanti presenti al convegno, finanziato indirettamente dal servizio segreto militare italiano (il Sifar, collegato alla CIA e raggiunto ai vertici dalle articolazioni della P2), figurano il massimo esperto e propagandista italiano della guerra non ortodossa al comunismo Adriano Magi-Braschi, portavoce dei capi del servizio segreto militare, dei carabinieri e dell’esercito e appartenente alla cellula veneta di Ordine Nuovo; gli estremisti di destra Stefano Delle Chiaie (creatore di Avanguardia Nazionale), Carlo Maria Maggi (dirigente di Ordine Nuovo nel Triveneto) e Mario Merlino; l’ex ministro socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo; esponenti del mondo industriale come Vittorio De Biase (responsabile della battaglia contro il Partito Comunista Italiano dentro Confindustria); ma, soprattutto, tantissimi giornalisti. Sono infatti presenti i direttori di quotidiani e settimanali importanti tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “La Nazione”, “Il Giornale d’Italia”, “Lo Specchio” e “Il Borghese”. La finalità primaria degli ideatori della ‘strategia della tensione’ fu infatti quella di smontare narrativamente i reali moventi degli atti terroristici inseriti nella cornice della “guerra non ortodossa”, con l’obiettivo di deviare il bersaglio del giudizio dell’opinione pubblica dai veri responsabili di tali atrocità. Come ha efficacemente illustrato Mirco Dondi nel suo saggio “L’eco del boato”, “nella guerra psicologica la notizia sovrasta l’attentato perché l’andamento del ‘conflitto’ dipende dal significato che si attribuisce all’atto violento: l’informazione è responsabile dell’esito finale”: infatti, “tranne pochi casi, la stampa non ordisce la guerra psicologica, ma la convoglia, in conseguenza del pesante influsso che i centri di potere esercitano nei suoi confronti”. Le testate rappresentate al convegno offriranno una sponda mediatica di enorme peso alle autorità politiche e militari e alle strutture clandestine che quella “guerra psicologica” la stavano conducendo sotto l’ala dell’influenza dell’intelligence USA.
Le mani della P2 sul Corriere
Nello schema della strategia della tensione, l’opera della P2 di Licio Gelli, che ebbe un ruolo di prim’ordine nel celeberrimo “Golpe Borghese” del 1970 (a cui parteciparono anche gli uomini di Cosa Nostra) e fu condannato per aver cercato di depistare le indagini sulla strage di Bologna, costituisce un ganglio fondamentale. Nelle liste della loggia massonica, ritrovate nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi nel 1981, oltre a quelli dei vertici dei servizi segreti, di importanti generali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dell’Esercito e dell’Aeronautica, di 3 ministri allora in carica e di 44 parlamentari, figuravano i nomi di 8 direttori di giornali, 22 giornalisti e 7 dirigenti Rai. Tra questi, anche il direttore de “Il Borghese” Mario Tedeschi, indicato nel 2020 dalla Procura generale di Bologna come uno dei quattro mandanti, organizzatori o finanziatori della strage di Bologna assieme allo stesso Licio Gelli, Umberto Ortolani (punto di contatto tra lo IOR e la P2, condannato per il crack del Banco Ambrosiano e per concorso in bancarotta nella gestione della Rizzoli) e Federico Umberto D’Amato (direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno dal ‘71 al ‘74).
Obiettivo fondamentale del ‘Maestro Venerabile’ Licio Gelli era infatti quello di esercitare una pesante influenza sul sistema mediatico italiano. A riprova di ciò, basti leggere il Piano di Rinascita Democratica, documento che riassumeva i progetti politici ed economici della P2, ritrovato nel 1982 all’aeroporto di Fiumicino nel doppio fondo della valigia della figlia di Gelli: “Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente. Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di ‘simpatizzare’ per gli esponenti politici come sopra (nel punto precedente del piano, ndr) prescelti”.
Negli anni Settanta, il Corriere della Sera era in assoluto il quotidiano più venduto in Italia. Nel ‘74 la maggioranza delle azioni dell’Editoriale Corriere della Sera Sas vennero acquisite dal gruppo Rizzoli, mentre le rimanenti furono acquistate dalla Montedison su spinta del suo AD piduista Eugenio Cefis. La Rizzoli, però, non riuscì a reggere il peso dell’ambiziosa operazione e fu sommersa dai debiti. Fu così che, nel ‘75, partì la vera offensiva della P2: Licio Gelli, Alberto Ferreri (direttore generale della Banca Nazionale del Lavoro, iscritto alla P2), Roberto Calvi (Presidente del Banco Ambrosiano, iscritto alla P2) e Giovanni Ferreri (Presidente del Monte dei Paschi di Siena, iscritto alla P2) incontrarono a Milano Andrea e Angelo Rizzoli, esponenti del gruppo omonimo, per inaugurare la sua entrata nell’orbita della loggia di Gelli. Venne costituita una società con sede a Lussemburgo, sotto il controllo del Banco Ambrosiano, che si accaparrò tutte le azioni della Montedison e il 15% del pacchetto azionario del gruppo Rizzoli. Nel ’77, il Banco Ambrosiano acquistò le restanti azioni della Rizzoli; il Presidente Andrea Rizzoli restò al suo posto ma cambiò il direttore generale, che venne individuato nel piduista Bruno Tassan. Iscritto alla P2 anche il nuovo direttore del Corriere, Franco Di Bella.
Nel ’78, Enzo Biagi si apprestava a partire per l’Argentina come corrispondente dei mondiali di calcio per il Corriere. Un’occasione ghiotta per un giornalista del suo calibro, pronto a sfruttare l’occasione per narrare le atrocità perpetrate dai generali argentini che avevano preso il potere due anni prima con il colpo di Stato. Cosa che, però, il direttore Di Bella gli impedì di fare, sostituendolo con un altro giornalista. Dalla lettura delle liste si scoprì che l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, braccio destro del Presidente argentino Jorge Rafael Videla, era iscritto alla P2.
Il 5 ottobre 1980 venne pubblicata sulla terza pagina del Corriere un’intervista del giornalista Maurizio Costanzo (tessera P2 1819) allo stesso Licio Gelli, in cui il ‘Venerabile’ espose la sua visione politica e le sue opinioni in merito a fatti di stretta attualità.
Corsi e ricorsi sulla Storia
Dal ‘78 comparvero con sempre maggiore frequenza sul Corriere articoli firmati da Silvio Berlusconi. Sarà forse una coincidenza, ma il Cavaliere si era appena iscritto alla P2 di Gelli (tessera 1816). Quattro anni prima, aveva stretto un patto di protezione con la mafia palermitana e aveva cominciato a pagarla, portandosi in casa il boss di Porta Nuova, Vittorio Mangano.
Le finalità esplicite del Piano di Rinascita Democratica rispetto all’universo dei media erano le seguenti: “Acquisire alcuni settimanali di battaglia; coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; coordinare molte tv via cavo con l’agenzia della stampa locale; dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art. 21 Cost.”. Difficile non scorgere un denominatore comune tra tale progetto e l’azione politica e imprenditoriale del Cavaliere nei decenni successivi (il suo avvocato Cesare Previti arrivò addirittura a corrompere con 420 milioni di lire provenienti dai fondi neri del gruppo Fininvest in Svizzera il giudice della Corte d’Appello di Roma Vittorio Metta al fine di ‘scippare’ la Mondadori al legittimo proprietario Carlo De Benedetti, subendo per questo una condanna definitiva).
“La storia è ciclica”, si dice spesso. Eppure, i cerchi della storia italiana sembrano aprirsi, chiudersi e riaprirsi in una eterna spirale che continua imperterrita ad autoalimentarsi.
[di Stefano Baudino]
E quindi Dell’Utri pagava alla Mafia mezzo miliardo di lire all’anno con i soldi di Berlusconi ma lui non ne sapeva niente? Se è così allora esiste Babbo Natale e porta i doni ai bambini buoni!
E qualcuno lo vorrebbe Presidente della Repubblica? Facciamolo anche Papa