Proteste e repressioni stanno mettendo a ferro e fuoco il Kazakistan: la Russia ha inviato il suo esercito per dare una mano a “ristabilire l’ordine” e i morti si contano a decine. I disordini sono nati in concomitanza con la rimozione definitiva dei limiti ai prezzi locali del GPL, cosa che ha portato immediatamente a un aumento dei costi del carburante e alla frustrazione frenetica del popolo, una frustrazione che, secondo il Cremlino, viene sovvenzionata da «forze esterne». Una possibilità non del tutto inverosimile, se si considera che il Paese è ricco di petrolio, terre rare, metalli e uranio. In tutto questo marasma, quasi risulta invisibile un elemento apparentemente secondario, a cui è facile non prestare attenzione, ma che da mesi si è insediato sul territorio, quello delle fabbriche di criptovalute.
Coloro interessati al Bitcoin lo avranno notato immediatamente, in questi giorni il valore della più nota moneta digitale ha subito una brutta fase di decrescita, un fenomeno che a ben vedere è anche legato all’infelice destino dei manifestanti kazaki. Con l’avvento delle sommosse, il Governo ha provveduto ad oscurare internet e, in un battibaleno, il 12-16% del potere computazionale del blockchain è scomparso dalla Rete, lasciando una voragine facilmente percepibile. Il Kazakistan è diventato una delle mete preferite dei “miner” da che la Cina ha bandito ogni attività legata alle criptovalute, i suoi numerosi giacimenti di carbone garantiscono costi energetici esigui, il che massimizza le opportunità di guadagno dei produttori di Bitcoin. La nazione si è guadagnato senza fatica il titolo di secondo produttore mondiale di valute digitali – a dominare sono attualmente gli USA -, con una produzione interna che ad agosto superava di poco il 18% dell’intera filiera.
Il black-out imposto dal Governo può aver forse danneggiato il Bitcoin, tuttavia è da evidenziare che il valore del conio virtuale fosse già autonomamente in discesa, una conseguenza al fatto che la Federal Reserve statunitense stia valutando se introdurre o meno nuovi regolamenti che limitino lo spazio di manovra del settore. In prospettiva, il crollo risulta tutto sommato contenuto e, anzi, dimostra più resilienza di quanto non evidenzi un’effettiva debolezza sistemica. Più che illuminare sul discorso finanziario, dunque, la questione kazaka offre uno spaccato sulla gestione delle miniere blockchain, una gestione la cui portata ci è solitamente nota solo tramite le stime degli osservatori esterni.
Le sanguinose repressioni ci rivelano empiricamente e per vie traverse che la nazione gestisca una fetta sostanziosa del settore e che lo faccia appoggiandosi su alcune delle centrali elettriche più inquinanti al mondo. Si parla di strutture che certamente hanno effetti deleteri sull’emissione di anidride carbonica, ma che hanno il vantaggio di garantire costi decisamente competitivi che, almeno momentaneamente, hanno attratto i minatori che hanno radicato le loro attività in Asia. Ancor prima dei disordini, Nur-Sultan era tuttavia una tappa temporanea per i miners: il Governo non era entusiasta delle loro operazioni non sempre legittime e già da tempo si discuteva di imporre divieti e normative, soprattutto visto che il consumo energetico della produzione di Bitcoin finiva con il privare di luce le città a causa di costanti sovraccarichi della rete elettrica.
Non è un caso dunque che 400 milioni di dollari di equipaggiamenti per il mining stiano già lasciando il Kazakistan per viaggiare verso gli Stati Uniti, nazione che sta progressivamente assumendo le sembianze di un giardino dell’Eden in formato blockchain. Allo stesso tempo, il costante nomadismo a cui è costretto forzatamente il settore sta delineando l’idea che la sopravvivenza e il benessere del Bitcoin non sia del tutto slegato dalla dimensione governativa. Anzi, il suo destino potrebbe sempre più legarsi ai poteri di stampo tradizionale, anche se non è ancora chiaro se saranno i Governi o i privati a vantare il ruolo dominante in questo genere di rapporto.
[di Walter Ferri]
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