Si chiama un po’ pomposamente “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”, e in teoria dovrebbe appunto servire per alimentare e incentivare un panorama di voci libere e indipendenti. In realtà, la raccolta pubblicitaria e le dinamiche dei media italiani, da anni, sono serviti più a strangolarle, che a fargli da amplificatore. Basti pensare che il tesoretto viene gestito dal ministero per lo Sviluppo Economico, quindi di volta in volta ha un colore e un indirizzo politico, al quale viene assegnato il compito di aprire o chiudere il rubinetto, decidendo chi ha diritto e a quanto. Un fondo che, all’insaputa di quasi tutti i cittadini, passa attraverso il canone Rai.
Il gruzzoletto ammonta a circa 110 milioni l’anno e ne beneficia una platea piuttosto vasta di tv e radio commerciali, esattamente 137 televisioni e 163 emittenti radiofoniche (oltre a 621 tra tv e radio comunitarie, ossia cooperative, opere diocesane, parrocchie, associazioni culturali), ma anche testate giornalistiche di carattere nazionale. Proprio questo, invero, è il punto. Perché il finanziamento a questa fetta cospicua e nemmeno troppo sommersa di media, passa – all’insaputa dei più – attraverso il canone Rai che tutti dobbiamo pagare. La norma infatti prevede che una parte della “bolletta” associata a quella della luce, e con la quale gli italiani finanziano l’emittente di Stato, serva appunto a sostenere tutto il sommerso che sta dietro a Mamma Rai. In molti casi, peraltro, proprio testate o emittenti che fanno concorrenza alla Rai stessa.
Non sono certo in molti, gli italiani che lo sanno. Non sanno per esempio che l’anno scorso tv e radio locali che in molti casi, non possono vedere e non vedranno mai, hanno beneficiato di 66 milioni da questo fondo, nell’anno appena iniziato la cifra dovrebbe essere aumentata di 5 milioni. Come non sanno che la quota rimanente a disposizione, viene elargita ad una platea di 107 tra giornali e periodici, comprese 8 testate editate per le minoranze linguistiche. Anche in questo, l’imbuto tra cui passa il fiume di soldi pubblici è politico, perché la lista e i criteri di ammissione sono gestiti dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, in questo caso col governo Draghi si tratta del senatore forzista Giuseppe Moles. Ma la lunga lista dei giornali che vengono sostenuti dal Fondo, attraverso la Rai, comprende testate molto note, la più fortunata delle quali è Dolomiten, quotidiano in lingua tedesca di Bolzano che incassa sei milioni e 176 mila euro. Ma anche i giornali cattolici Famiglia cristiana e Avvenire non possono lamentarsi per il trattamento che ricevano: rispettivamente sei e cinque milioni di euro. Ci sono anche Libero (5,4 milioni di euro), Italia Oggi (quattro milioni), Il Manifesto (tre milioni), Il Foglio (un milione e 800mila euro).
La legge che ha accorpato il canone Rai alla bolletta risale al governo Renzi, fu pensata (e molto criticata) per cercare di ridurre l’alto tasso di evasione su questo contributo all’Ente di stato e se è per quello, con la coercizione, si è notevolmente abbassato il numero dei morosi (dal 27% al 5%): 7 milioni di italiani in più, totale circa 22 milioni, pagano 90 euro di canone Rai, non sapendo che 5 euro vanno a tutti gli altri senza che gli italiani in pratica lo sappiano. Una situazione che non fa contenta nemmeno la Rai, anzi. Grazie alla norma che fa pagare coercitivamente tutti, quindi aumentando la platea di cittadini che pagano, il gettito è aumentato a quasi 2 miliardi, ma tra Iva, tasse di concessione e appunto il Fondo, le risorse per Mamma Rai non sono aumentate, anzi sono diminuite. Tanto è vero che il sindacato Usigrai fece anche un ricorso al Presidente della Repubblica e l’amministratore Rai, Carlo Fuortes, appena insediato ha sollevato il problema davanti alla commissione di Vigilanza.
Ha poi proposto di azzerare il Fondo e quindi di drenare le risorse per il servizio pubblico che negli anni ha visto dimezzarsi le entrate pubblicitarie (dal 2008 al 2021: da 1 miliardo 187 milioni a 557), scatenando però subito una tempesta tra gli editori e i giornalisti. E ricevendo di fatto l’altolà da parte del presidente della Fieg (Federazione Italiana Editori Giornali), Andrea Riffeser Monti, che ha tuonato a difesa del pluralismo e per difendere le decine di testate che campano coi soldi del Fondo. E all’insaputa degli italiani che li finanziano.
[di Salvatore Maria Righi]