Sale sempre di più l’attenzione verso il piccolo Stato di Gibuti, affacciato sulle coste dell’Africa Orientale nella parte meridionale del Mar Rosso, sul Golfo di Aden. In posizione strategica rispetto al passaggio dall’Asia all’Europa via Suez, l’ex colonia francese è diventata terreno di scontro nella sfida globale tra la superpotenza statunitense e quella cinese. La presenza militare straniera a Gibuti risulta essere elevata, vista anche l’estensione territoriale del piccolo Stato africano; oltre a Stati Uniti e Cina sono presenti: Francia, Giappone, Arabia Saudita e Italia – presente dal 2013 con una base anti-pirateria – mentre Germania, Regno Unito e Spagna sono presenti appoggiandosi alle basi militari degli alleati. Russia e India hanno invece avanzato proposte di installazione. L’affitto delle aree ad uso militare straniero sono la principale fonte economica di Gibuti, uno tra gli stati più poveri al mondo: gli Stati Uniti pagano 63 milioni ogni 10 anni mentre la Cina paga 20 milioni di dollari all’anno, tra soldi liquidi e investimenti commerciali.
Gli Stati Uniti sono insediati dal 2002 nell’ex base francese Camp Lemmonier, sede della Combined Joint Task Force – Horn of Africa (CJTF-HOA) del Comando Africa degli Stati Uniti (USAFRICOM o AFRICOM). Questa base ospita 4.000 unità tra personale militare e civile e appaltatori del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e risulta essere la più grande base permanente USA su suolo africano.
Nel 2017, a poche decine di chilometri a nord di Camp Lemmonier, la Cina ha costruito la sua prima base militare all’estero, destando non poche preoccupazioni per la strategia globale statunitense. Sebbene due anni prima i cinesi si fossero già insediati nell’area, le motivazioni apparivano di carattere commerciale, ovvero creare una struttura logistica di interscambio funzionale all’espansione economica cinese nel continente africano. La struttura cinese, oltre a comprendere diversi tipi di forze, è dotata anche di eliporto per droni e, dall’aprile dello scorso anno, anche di un molo lungo 660 metri per l’attracco di portaerei.
Il generale Stephen Townsend di AFRICOM, sempre lo scorso aprile, proprio in merito agli sviluppi della base cinese nel Paese, ha lanciato moniti parlando al Comitato dei servizi armati della Camera, definendola una «piattaforma per proiettare il potere in tutto il continente e le sue acque». Il generale ha anche aggiunto che i cinesi «cercano risorse e mercati per alimentare la crescita economica in Cina e sfruttare gli strumenti economici per aumentare la loro portata e influenza globale». Ciò risulta essere una spina nel fianco per gli Stati Uniti e per lo Strategic Competition Act, di cui vi abbiamo parlato lo scorso anno, ovvero la strategia globale di contenimento e offensiva nei confronti dell’ascesa cinese.
Secondo il generale, senza fornire alcuna reale prova, Pechino vorrebbe costruire anche ulteriori basi per legare «i loro investimenti nei porti marittimi commerciali in Africa orientale, occidentale e meridionale strettamente con il coinvolgimento delle forze militari cinesi al fine di promuovere i loro interessi geo-strategici». Nel dicembre passato, prima il Wall Street Journal e poi il New York Post, hanno riferito di funzionari governativi che hanno espresso preoccupazione per la possibilità che la Cina si installi con una base anche sulla sponda atlantica dell’Africa e, più precisamente, in Guinea Equatoriale.
Ciò che invece risulta certo è che la base statunitense di Gibuti è un hub per l’addestramento di forze etiopi, somale, ugandesi e di altri paesi africani. Inoltre, il Paese ospita emittenti di propaganda regionali e gruppi privati che operano come agenzie umanitarie. Un cablogramma pubblicato da Wikileaks, risalente al 2010, inviato dall’ambasciata degli Stati Uniti a Gibuti alla CIA, riporta che Gibuti è sede di «strutture di trasmissione [del governo degli Stati Uniti] utilizzate da Radio Sawa in lingua araba e dal Servizio somalo Voice of America, l’unico magazzino USAID Food for Peace per aiuti alimentari di emergenza pre-posizionati al di fuori [degli Stati Uniti continentali] e strutture di rifornimento navale per le navi statunitensi e della coalizione».
Nello stesso anno, Camp Lemonnier ha ospitato la prima conferenza al vertice di comando, controllo, comunicazioni, computer, intelligence, sorveglianza e ricognizione dell’Africa, per la guerra a distanza con i droni. Due anni più tardi, BT (ex British Telecom) ha costruito un cavo in fibra ottica da 23 milioni di dollari per la US Defense Information Systems Network e la National Security Agency. Il cavo andava dalla Royal Air Force Croughton (a nord di Londra) – gestita dalla US Air Force a Napoli (Italia) – fino a Camp Lemonnier, utile alla “guerra a distanza”. Continue sono le esercitazioni militari e l’addestramento di forze alleate e partner militari, tra il soft power della propaganda e la messa in mostra dei muscoli d’acciaio di navi e velivoli, come accaduto lo scorso novembre.
È innegabile la strategia economica aggressiva della Cina nel continente africano, tra investimenti infrastrutturali e finanziamenti a lungo termine in cambio dell’apertura di nuovi mercati e dell’estrazione di enormi quantità di risorse minerarie. Al momento però le forze militari sul continente africano sembrano essere alquanto impari con gli Stati Uniti che certamente hanno una presa maggiore, sia direttamente che indirettamente, su buona parte del continente.
Il piccolo Gibuti, paese ad alto valore geostrategico, commerciale e militare, appare l’emblema di un mondo multipolare dove le potenze si confrontano camminando spericolatamente sul filo sottile che separa pace e guerra.
[di Michele Manfrin]