Nell’infinito calderone delle ormai numerose piattaforme streaming, dove non è facile districarsi tra i tanti prodotti principalmente mainstream, qualcosa di bello a volerlo cercare, si trova, come questo piccolo gioiellino, vincitore come miglior cortometraggio-documentario al Sundance Film Festival 2018. Il Mercante è un documentario opera prima diretto dalla giovane regista georgiana Tamta Gabrichidze classe 1986, che con estrema semplicità in soli 23 minuti mostra la condizione del suo popolo, racchiudendola in una giornata di lavoro del corpulento venditore ambulante Gela Kolochovi, che nella capitale Tbilisi compra prodotti usati e con il suo furgoncino si reca nelle zone rurali e nei villaggi più remoti della Georgia, per offrire la sua merce agli abitanti di quelle campagne isolate.
In cambio non chiede soldi ma patate. Di Lari georgiani, questo il nome della moneta nazionale, ne girano ben pochi data l’estrema povertà di quella gente. Utensili, vestiario, giocattoli e oggetti di uso quotidiano ma anche prodotti alimentari irreperibili in zona, si barattano in cambio di patate la cui coltivazione è fondamentale in un luogo dove le persone lottano per sopravvivere, in cui la difficoltà di vivere nella miseria si riflette nei loro volti, nei loro sogni e nelle loro parole, come quelle di un vecchio abitante del luogo con le mani rovinate dal gelo e da una vita di duro lavoro in una terra arida, fumando una sigaretta dice: «Le patate sono denaro per noi. Euro, dollari, Lari georgiani: le patate sono tutto». «Il mio sogno quand’ero bambino era di ricevere un’istruzione. Volevo laurearmi all’università, ma non ho potuto perché non ho mai avuto l’opportunità».
Nel breve viaggio con l’ambulante Gela incontriamo molti personaggi e tutti, anche nei loro silenzi, hanno qualcosa da raccontare, creando nella loro semplicità, scene molto potenti, riuscendo a trasmetterne l’essenza solo con le immagini, come quella di un bambino che ci fissa sorridente, dondolandosi su un’altalena rugginosa e cigolante, mentre altri alle sue spalle giocano sotto una fitta pioggerellina gelida. La regista ha fatto un lavoro pulito, con inquadrature principalmente fisse, dove si alternano campi lunghi su cieli plumbei e pianure infinite con donne chine a raccogliere patate, sognando di riuscire a comprare qualcosa quando passerà il mercante. Campi medi d’insieme sulla quotidianità e primissimi piani per entrare, tramite i volti, nell’anima dei personaggi, creando così e in poco tempo, una forte empatia verso di loro, come in una semplicissima scena, girata con una inquadratura fissa, concentrata solo sullo sguardo di una vecchia con il viso scavato dalle rughe e il naso arrossato dal freddo tagliente, che cerca di contrattare con il mercante una semplice grattugia. In un’economia di scambio senza eccezioni o compassione, dove se hai un solo Lari e non hai i cinque chili di patate richiesti, una grattugia non puoi permettertela, contrasta con l’innocente felicità di tre bambini che accorrono al furgoncino di Gela che, come un teatrante di strada, li fa giocare con le bolle di sapone, per attirare l’attenzione di possibili clienti. Il tutto avviene con una naturalezza quotidiana disarmante.
Tamta Gabrichidze con questo piccolo cortometraggio vuole aprirci gli occhi non solo superficialmente, nell’insegnarci a gioire delle piccole cose, rinunciando ai beni materiali per apprezzare il senso della vita, ma con delicatezza e una forte deferenza verso il suo popolo, vuole fare una vera e propria denuncia sulle condizioni in cui vivono molti suoi connazionali, dove le ambizioni si scontrano con la povertà, come in un bambino emozionato che non riesce a esprimere di fronte alla macchina da presa, cosa vuole fare da grande. La madre gli suggerisce di dire che vuol fare il giornalista, ma sembra un’idea troppo irraggiungibile anche per i sogni di un ragazzino immaginarsi una vita diversa da quella. Un documentario poetico che ci racconta intimamente di esseri umani abituati a vivere in equilibrio con la loro lotta quotidiana, mostrata nella sua naturalezza, che pure nella miseria acquista dignità proprio per la fluidità con cui viene raccontata, lasciandoci così, nonostante tutto, con un filo di speranza, ed offrendoci spunti per diverse riflessioni. Alla fine della giornata il personaggio di Gela il mercante, che è solo un pretesto per raccontarci questo mondo, fa ritorno al mercato di Tbilisi per rivendere le patate, ricavarne un guadagno necessario per sé e per ricomprare altra merce da barattare nel prossimo viaggio.
Ho visto anche la Georgia. Confermo l’idea che il film sia propaganda. Il paese è già pieno di investimenti occidentali, se c’è povertà è perché l’abbiamo portata noi…
Buongiorno.
Ho visionato il film, che in effetti non è male. Anzi, per uno come me che ama le zone caucasiche, è anche affascinante. Si potrebbe esercitare l’ermeneutica, ritrovare in esso un ritratto della condizione umana, una pretesa di messaggio universalistico e via dicendo. Tuttavia non è un film, bensì un documentario. Quindi non va visto con gli occhi dell’arte, non interessata alla verità, ma con gli occhi della filosofia, che alla verità vorrebbe avvicinarsi il più possibile. Quindi non si può commettere l’errore di estendere il caso singolo di quest’uomo a tutti gli abitanti della Georgia o peggio di tutti gli abitanti delle ex repubbliche sovietiche. Questo è un documentario su un caso particolare, su alcune zone e abitanti particolari.
Io ho visitato l’Armenia che, come la Georgia, è una ex repubblica sovietica; in parte ha situazioni simili; ma per questi paesi ciò che colpisce di più sono i divari nel reddito: girando per Yerevan si possono vedere tante auto costose come anche tante auto risalenti al periodo sovietico degli anni 80. Questi paesi sono stati catapultati nell’economia capitalistica di colpo; viaggiando in quei posti si ha l’impressione che in certe zone, non nella capitale che è moderna quanto una città occidentale, siano fermi ai nostri anni 50. Ma ho la netta sensazione che non sia un paese arretrato, ma una prospettiva futura: in altre parole la loro situazione anticipa quella che sarà la nostra che infatti abbiamo percentuali di povertà assoluta in aumento.
Il fatto poi che il documentario sia in parte finanziato da Netflix mi getta addosso il sospetto che sia propaganda politica: cioè si vuol far credere che in Georgia si stia male e si viva peggio. L’insistenza sul baratto come condizione primitiva è eloquente; in realtà il baratto è una uscita dal circolo pericoloso del capitale, ma è un altro discorso. Chi vede il documentario si immagina questi abitanti afflitti da povertà alimentare (mangiano solo patate) e ignoranza (il contadino intervistato non ha potuto andare all’università). I presupposti sono errati e le conclusioni che ne trae lo spettatore sono altrettanto errate. Il fatto poi che la Georgia sia nell’occhio del ciclone, contesa tra Nato e Russia mi spinge ancora di più a credere che sia propaganda.
L’Armenia è un grande paese e i suoi abitanti sono ospitali, amichevoli e fieri; mi immagino la Georgia simile.