La prima domenica dell’anno in Val di Susa è avvolta da una patina di calma apparente. La statale 25, che congiunge Torino sino al Moncenisio, serpeggia tra paesi avvolti nella pigra quiete domenicale. Tuttavia, lungo la strada numerose camionette delle Forze dell’Ordine mi sfilano a fianco. Poco più avanti, tra San Didero e Bruzolo, l’ingresso di quello che forse un giorno diventerà il cantiere del nuovo autoporto è presidiato da decine di agenti, che passeggiano su e giù pigramente al di là delle recinzioni e del filo spinato. Vi è anche un camion per il trasporto degli idranti. Il presidio No Tav, sorto proprio lì di fronte, è deserto. A Chiomonte, mentre mi trovo all’esterno del cantiere per fotografare il murales Alta voracità vengo immediatamente fermata dalle Forze dell’Ordine che presidiano la zona. Chi è lei? Cosa stai fotografando? È sua la macchina? Prego favorisca i documenti. Scusi ma ho fatto qualcosa? È vietato stare qui? No assolutamente, normali controlli. Eppure di normale non vi è proprio nulla.
«Qua succede in continuo, è una cosa normale» afferma Giulia, attivista del Comitato giovani No Tav di Bussoleno, quando le racconto l’accaduto. Mi spiega che nei pressi del cantiere di Chiomonte si trova il presidio dei Mulini, inaugurato nel 2020 e molto attivo sul fronte delle iniziative di sensibilizzazione nei confronti della causa No Tav. «Cercano di identificare chiunque si trovi in zona, per scoraggiare dal venire in questi posti. Ma questo è il nostro territorio, sul quale noi rivendichiamo la libera circolazione, non può essere che qualcuno venga a chiederti i documenti mentre vai a fare una passeggiata nel bosco».
Giulia, originaria di Torino, ha 27 anni e dal 2015 vive in Val di Susa. Come lei sono tantissimi i giovani che hanno deciso di legarsi a questa causa, molti addirittura provenienti dalle scuole superiori. «Organizziamo molte attività il cui scopo è la sensibilizzazione e l’informazione, come il vin brulè, le apericene, presentazioni di libri, fiaccolate, castagnate, prima di Natale abbiamo organizzato una sorta di gioco dell’oca per la valle. Eppure nulla di tutto ciò fa notizia, sui giornali si legge del movimento sempre solo per raccontare che siamo dei violenti, e non è nemmeno vero». Anche personaggi come Zerocalcare o il cantante Willy Peyote hanno organizzato eventi al presidio dei Mulini, proprio per tenere alta l’attenzione sul territorio.
Era il 1988 quando in Val di Susa arrivano i primi echi di un progetto la cui necessità già allora si stentava a comprendere: la Francia voleva ampliare la propria rete ad alta velocità con la linea Grenoble-Torino, che sarebbe transitata attraverso il Monginevro. Sono trascorsi trentatré anni da allora, durante i quali è nato uno dei movimenti di resistenza popolare più ostinati e longevi che la storia italiana recente conosca. Il movimento No Tav nasce spontaneamente come risposta alla tendenza di una classe politica a prendere decisioni ignorando del tutto la volontà popolare.
Le ragioni dell’opposizione grande opera sono semplici: i costi, in termini non solo di soldi per i contribuenti ma anche di peggioramento della qualità della vita e devastazione del territorio, sono di gran lunga superiori ai benefici. Secondo le proiezioni, infatti, il traffico di merci attraverso il valico è in costante calo dal 1999, ragion per cui un’opera come la Tav non trova ad oggi giustificazione per la sua realizzazione.
Ciò che i sostenitori dell’Alta velocità hanno visto realizzarsi, in trent’anni, non è poi molto: a malapena è stata ultimata la costruzione di 8 km di tunnel geognostico, necessario per realizzare gli studi sulla fattibilità del progetto analizzando la composizione del terreno e delle rocce. Del tunnel di base, lungo 57,5 km e a due canne, per il momento non se ne parla. L’area del cantiere di Chiomonte, dove dovrebbero avere inizio gli scavi, è un gigantesco perimetro militarizzato presidiato giorno e notte dalle Forze dell’Ordine, all’interno del quale i lavori procedono a singhiozzo da anni e principalmente su opere collaterali.
Nel luglio 2021 la Francia ha terminato le gare d’appalto per l’inizio dei lavori sul versante francese, mentre a settembre l’Italia è stata bacchettata dall’Europa, che ha cercato di dare una stretta sui tempi. Il viceministro alle infrastrutture Morelli ha sottolineato come le procedure siano in perfetto orario e come «Il governo italiano chiaramente ha la Tav tra le proprie priorità». Semmai, i problemi sono di ordine pubblico. Un leit motiv che ogni governo ha ripetuto, da 30 anni a questa parte, che regge il gioco a quell’abitudine tutta italiana di costanti rimandi e rinvii quando si parla di grandi opere (mai sentito parlare del ponte sullo Stretto? E della Salerno-Reggio Calabria?).
Incontro Giulia e Francesco in un bar di Bussoleno lunedì mattina. Il calore primaverile del sole sulla pelle, per quanto piacevole, è anomalo in questo periodo dell’anno. «Ieri qui a Bussoleno abbiamo registrato una temperatura di 16 gradi: non è una cosa normale in questo periodo in Val di Susa» mi dice Giulia. Francesco fa parte del Comitato lotta popolare ed è lui a raccontarmi, fumando una sigaretta dopo l’altra, la storia dietro la costruzione dell’autoporto di San Didero, ad oggi il fronte caldo della lotta No Tav.
Il primo autoporto è stato costruito negli anni ’80 nella zona di San Didero, ma con l’arrivo dell’alta velocità Torino-Lione, tuttavia, il cui cantiere sorge in un’area limitrofa a Chiomonte, sorge il problema del gestire l’enorme quantità di materiale che verrà estratto dalla montagna (il cosiddetto smarino) quando verrà scavato il tunnel di base. Si decide di costruire un nuovo autoporto a Susa, nonostante San Didero disti appena 16 km, devastando ulteriormente la valle con una grande colata di cemento.
Ora, ironicamente, l’autoporto verrà nuovamente spostato a San Didero, per lasciare spazio alla costruzione dell’imponente stazione internazionale dell’Alta Velocità di Susa. Il cantiere avrà un’estensione di 68 mila metri quadri e costerà 47 milioni di euro. Nessuno studio sulla previsione di passaggio è stato fatto, mentre è chiaro che il traffico di merci è in calo costante dal 1999, sia attraverso la ferrovia che su gomma attraverso l’autostrada. Solamente per la messa in sicurezza del cantiere, ovvero per l’acquisto di recinzioni, filo spinato, videocamere di sicurezza e quanto possa scoraggiare l’avvicinamento degli oppositori, la spesa si aggira intorno ai 5,3 milioni di euro.
A fronte dell’insensatezza delle decisioni che hanno portato al devastamento della valle, mi pare semplice comprendere la rabbia dei valsusini. Di opere che ne hanno sventrato la bellezza ve ne sono ovunque: basti guardare i viadotti autostradali della A32, mostri in cemento e acciaio per la cui realizzazione sono stati espropriati i terreni dei residenti e, anche per quelli che sono rimasti, hanno comportato un’enorme perdita di valore delle terre e di quanto vi veniva prodotto, secondo quanto mi spiega Francesco. Il rumore prodotto dal traffico che vi transita è udibile fino alla frazione di Santa Chiara, a 1500 metri di altitudine, dove mi reco per avere una visione dall’alto dell’area del cantiere di Chiomonte.
La tematica della devastazione ambientale e del futuro della valle è il motore primario che spinge i giovani all’attivismo. «Abbiamo un cantiere che emetterà tonnellate di CO2 già solo in fase di costruzione e altrettante quando sarà costruito e non toglierà i tir dalla strada perché stiamo costruendo un autoporto proprio per il trasporto su ruota. Il caso della Tav è emblematico per capire come affrontano oggi le crisi climatiche» afferma Giulia. «Il futuro è legato ai giovani e ora come ora le prospettive non sono delle più rosee. Ci troveremo un territorio devastato e un’area irrespirabile, perché lo smarino portato su e giù per la valle non fa particolarmente bene, quindi come giovani si sente l’urgenza di intervenire su queste cose. Alla fine quelli che pagheranno le conseguenze di tutto questo siamo noi. Inoltre molti dei giovani del movimento No Tav sono figli o nipoti di altri militanti, quindi l’intergenerazionalità fa intrinsecamente parte del movimento».
Prima di rientrare a Torino mi reco ancora in uno dei luoghi storici per la lotta No Tav. Dopo aver superato Susa imbocco la provinciale sulla destra, in direzione di Venaus. In pochi minuti mi trovo sulla destra lo storico presidio. Si tratta di un punto di riferimento per tutti coloro che fanno parte del movimento nella valle e in Italia, ma anche per chi si trova in zona solamente di passaggio. Un muro all’esterno, ricoperto di adesivi, traccia il passaggio di questi pellegrini. Appena mi avvicino arriva ad accogliermi Fulvio, storico militante del movimento, un uomo sui settant’anni traboccante di energie. Mi mostra orgogliosamente il presidio, narrandomi per filo e per segno la storia della sua nascita. Da come viene dipinta nel suo racconto, la storia della marcia su Venaus del 2005 non ha nulla da invidiare alle più grandi rivolte descritte nei libri di storia.
«Sono scese 30 mila persone dai boschi, per ritrovarsi tutti qui, a lottare per i nostri diritti» racconta fieramente Fulvio, che all’evento era presente. «Alla fine, le Forze dell’Ordine sono dovute andare via: siamo riusciti a fermare i lavori, siamo riusciti a riprenderci la valle». Gli occhi gli si illuminano di orgoglio. Poi mi invita ad entrare, per stare al caldo e bere un caffè.
Le pareti, all’interno, sono coperte di libri e giochi da tavolo. Una stufa al centro della stanza diffonde un tepore accogliente. Ci accomodiamo al lungo tavolo, un paio di cani ci girano intorno scodinzolando. Mentre fuori il buio del pomeriggio invernale ingoia velocemente i boschi ed il crinale della montagna, Fulvio mi racconta degli anni di militanza nel movimento. La sua analisi del significato delle rivendicazioni No Tav e delle modalità di lotta all’oppressione sono dure e lucide. «Quella con lo Stato non è una lotta ad armi pari. E quando l’apparato statale diventa oppressivo, noi non abbiamo altri mezzi per opporci se non i nostri corpi». Corpi che diventano il luogo della resistenza, che scrivono su di sè la storia della lotta, come fanno le cicatrici che Fulvio porta sul braccio.
Sul rapporto con le nuove generazioni, si mostra fiducioso, pur ammettendo che le motivazioni che spingono i giovani ad agire oggi non sono le stesse per le quali ha iniziato lui la militanza. «La lotta popolare operaia ormai non esiste più, viviamo in una società troppo frammentata, regna troppa incertezza. Sono cambiate anche le ideologie alla base dell’intero movimento: se una volta la lotta era mirata al fatto di non volere il treno oggi i giovani sono molto più concentrati sulle tematiche che riguardano la salvaguardia dell’ambiente, nuovi modi alternativi di vivere. È giusto che sia così, ma allo stesso tempo è qualcosa che anni fa non esisteva».
Parliamo ancora a lungo, anzi a parlare è soprattutto lui. Arrivato il momento di andare via, un moto mi trattiene: vorrei ancora domandare, parlare, sapere. Fuori ormai è buio, ma sui mostri di cemento che feriscono la valle sono ancora visibili le scritte “No Tav”. Qualcuno ha riportato la famosa frase di Brecht, “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere”. Lascio a malincuore il presidio per tornare verso Torino. E nella valle, la lotta continua.
[di Valeria Casolaro]