Solo due settimane fa Kaboré, presidente del Burkina Faso, prendeva parte ad un vertice regionale per stabilire le sanzioni da imporre agli autori del golpe in Mali. Chi l’avrebbe detto che, a distanza di poco, sarebbe stato lui stesso a finire in mano all’esercito? L’annuncio della caduta di Kaboré e della sospensione della Costituzione locale è stato firmato dal tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, leader dei golpisti, e poi riferito alla stampa da un suo ufficiale. Nel comunicato militare si dice che l’intervento armato era ormai necessario per contrastare l’incapacità del Governo di far fronte ai problemi che il Burkina Faso sta affrontando.
Ancora una volta l’omicidio di Thomas Sankara – leader rivoluzionario locale, amato dalla gente, al potere negli anni ’80 – rivive nella storia del Paese, che non riesce ad uscire dalla morsa soffocante della dittatura.
In linea temporale, il Burkina Faso è la terza nazione della zona a vivere un colpo di stato nel giro di pochi mesi. Prima di lei Guinea e Mali. I golpe salgono a quattro se nel computo aggiungiamo anche la successione poco trasparente in Ciad, dopo la morte del presidente Idriss Déby, e forse anche cinque se consideriamo il Sudan, dove i militari tengono stretta per il collo la democrazia.
Perché così tanti? Perché questa instabilità? Anche se ogni Paese ha una storia a sé, la cui narrazione andrebbe contestualizzata negli anni, nel caso del Mali e del Burkina Faso è evidente che c’entri qualcosa la lotta contro il terrorismo jihadista. Una “malattia” che si è insinuata facilmente all’interno di Governi troppo fragili, generando malcontento fra la popolazione e nei confronti degli aiuti esterni, finiti per essere sostanzialmente irrilevanti (o addirittura controproducenti).
Nello specifico, la svolta decisiva per il Burkina Faso è da ricercare nel mese di novembre: in quei giorni un attacco jihadista sferrato nei confronti delle Forze armate del Paese ha ammazzato cinquanta gendarmi. Il punto di rottura non è stato la morte di quegli uomini, ma la gestione del presidente Kaboré. La sua cattiva condotta, insieme all’inattività dei ministri della difesa e all’assenza di strategie concrete ha portato fino a qui.
Quindi la soluzione è l’esercito? Alcune foto scattate in questi giorni ritraggono cittadini felici e soddisfatti della presa del potere da parte dei militari. La verità è che nemmeno i militari sono la risposta giusta, perché anche loro alla fine dei conti non sono momentaneamente dotati di una valida strategia.
D’altronde, non dobbiamo dimenticare che il Burkina Faso è una terra che accoglie sette milioni di uomini, il 98% dei quali non sa leggere né scrivere, dove 1 bambino su 5 muore prima di compiere cinque anni, con un solo medico ogni 50mila abitanti e un reddito pro capite che non arriva a 100 dollari l’anno. Numeri che contribuiscono a disegnare uno scenario in cui l’ideologia jihadista fa arrabbiare la popolazione, ma che allo stesso tempo recluta sempre più ragazzi locali, in fuga dalla disoccupazione e dall’emarginazione. Per non parlare poi “dei soliti” traffici illegali di armi, droga, e sfruttamento delle miniere d’oro.
Se non si interviene in maniera concreta, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non muta.
[di Gloria Ferrari]