venerdì 22 Novembre 2024

Zone umide: un tesoro in via d’estinzione (ma qualcosa sta cambiando)

Ieri, 2 febbraio, è stata la Giornata Mondiale delle Zone Umide. Una commemorazione simbolica istituita, nel 1997, allo scopo di ricordare l’importanza ecologica delle aree umide del Pianeta. In tale data, infatti, ricorre l’anniversario della Convenzione di Ramsar, tenutasi in Iran nel 1971, il primo documento intergovernativo atto a proteggere questi preziosi ecosistemi. Eppure, nonostante una normativa storica – le zone umide sono state tra le prime aree naturali sottoposte a protezione internazionale – in 120 anni, solo in Europa, ne è andato perso il 90%.

Allo state attuale, le zone umide coprono il 6% della superficie terrestre. Che siano torbiere, prati umidi, stagni, paludi o aree inondate, svolgono funzionalità ecosistemiche essenziali che non hanno eguali. Che si tratti di acque dolci, salmastre o salate, una cosa è chiara, non possiamo farne a meno. In primo luogo, sono tra gli ecosistemi più laboriosi della Terra, dal momento in cui, ogni anno, convertono dai 600 a 2000 grammi di carbonio per metro quadro. Si stima che contengano un terzo del carbonio immagazzinato nel suolo e nella biomassa della terra. Se scomparissero quel carbonio verrebbe rilasciato in atmosfera. Stiamo parlando, inoltre, di veri e propri scrigni d biodiversità. Basti pensare che il 40% delle specie, a livello globale, è legato a questi ambienti. Le zone umide, oltre ad ospitare una biodiversità particolarmente rilevante, forniscono poi servizi ecosistemici cruciali per il benessere delle società umane. Questi includono la regolazione della purificazione dell’acqua, la protezione dall’erosione del suolo e dagli effetti delle inondazioni, nonché un significativo potenziale di mitigazione dei cambiamenti climatici. Per rendere l’idea: sebbene le zone umide occupino meno del 10% della superficie terrestre, contribuiscono fino al 40% del rinnovo annuale globale di detti servizi.

Tuttavia, al contempo, stiamo parlando di ecosistemi particolarmente vulnerabili. Forse dei più fragili in assoluto. A minacciarle, da un lato l’antropizzazione, dall’altro, il più recente cambiamento climatico, comunque, di origine umana. Il risultato è che, dal 1900 ad oggi, ne abbiamo perse oltre la metà a livello globale. In Europa il 90%, in Italia il 66%. Dal 1971, anno in cui è stata firmata la Convenzione di Ramsar, oltre il 35% delle zone umide del mondo è stato prosciugato per lo sviluppo urbano o l’agricoltura, inquinato in modo irreparabile o perso per l’innalzamento del livello del mare. Nonostante uno stato di conservazione critico su più fronti, a far sperare è però il recente e rinnovato impegno internazionale finalizzato a tutelare le aree umide residue. Prima di tutto, ogni Paese ne ha ormai riconosciuto l’importanza, così, la protezione legale che queste ricevono è sempre maggiore. Al livello europeo, così come altrove, sono poi enormi gli investimenti dedicati a progetti di ripristino e conservazione focalizzati su questi ecosistemi tanto essenziali quanto vulnerabili. Ora, il passo successivo – come chiedono a gran voce diversi scienziati – è aggiornale la Convenzione. Per garantire una salvaguardia efficace delle zone umide, questa ha infatti bisogno di connettersi meglio con altri schemi di conservazione globale, spostare la sua attenzione dalla semplice catalogazione dei siti a una visione più olistica della loro ecologia ed idrologia che consideri, tra le altre cose, l’influenza del paesaggio circostante.

[di Simone Valeri]

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